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Testa alta, guscio duro: l’hardcore punk secondo i Turtles JR

In occasione del live all'Hyperlocal Club Buahbatu, abbiamo chiesto a una delle band più influenti dell'arcipelago indonesiano cosa significa essere nella scena da trent'anni

Written by Luigi Monteanni il 14 June 2024
Aggiornato il 4 July 2024

Courtesy of Turtles JR

I Turtles JR. formati da Rob, Buux, Bun e Budi sono ormai una leggenda a Bandung e fuori. Quartetto di hardcore punk che da sempre mette al centro delle proprie produzioni una vita ai margini senza compromessi e il rifiuto di qualsiasi regime di oraganizzazione, suonerà, oltre che al gigantesco Hellfest, a Hyperlocal: Club Buahbatu. L’etnomusicologa Emma Baulch li ha listati come una delle band più influenti all’interno dell’arcipelago, e sulla coda di questi dati abbiamo scambiato due parole per capire con loro cosa significa essere una colonna portante della scena per trent’anni consecutivi.

«Accade che d’un tratto vedono i sistemi che regolano la loro vita da quando sono nati. Ecco che nasce il punk: una risposta alla sistematizzazione di queste norme.»

L: Come avete fatto a finire nel punk? Cosa vi interessava?

Buux: Era divertente, era semplice e diretto. Se volevi fare schifo potevi fare schifo. L’importante era suonare coi tuoi amici.

L: Potete parlarmi di come avete iniziato col vostro progetto?

Rob: Ci siamo formati alle superiori nel ‘92. Allora la formazione era diversa e il nostro sound era molto più affine al punk rock. Ora ovviamente siamo più nell’hardcore punk. Non avevamo una direzione precisa. Facevamo le prove, volevamo solo divertirci.

Buux: Ora semplicemente cerchiamo di essere più pesanti [ride].

L: Come mai avete scelto questo nome?

Rob: Era una fissa del nostro primo batterista. Quando lo ha proposto ci sembrava divertente e semplice. Era un po’ come dire i Ramones! Mentre Junior è perché ancora eravamo alla Junior high school.

Buux: Però ha anche una sua filosofia! Le tartarughe sono animali rilassati, vivono tantissimo, sono dure e forti e se la prendono comoda… Slow! [Ride.] Andiamo piano, ma facciamo sempre e comunque festa.

L: Avete avuto altre band?

Buux: Sì, qua e là, ma abbiamo sempre messo i Turtles come la priorità assoluta. Il resto è solo divertimento.

L: C’è qualcosa che è cambiato nel vostro suono, nei temi o in altre cose che riguardano il vostro percorso artistico?

Buux: Molte. Stiamo cercando di essere più al passo coi tempi. Anche se il nostro sound non è cambiato, cerchiamo di essere più vicini a nuovi standard di produzione, sia nella tecnica che nell’essere più attivi tanto sui social quanto nella scena. Una volta, per esempio, la gente era meno attenta alla raffinatezza di un suono. Oggi, quando suoniamo, ricerchiamo allora un suono affilato anche all’interno dell’atmosfera di rumore del nostro sound. È una questione di dare valore a quello che facciamo.

L: In generale però, a oggi, ci sono gruppi che vogliono suonare lo-fi vedendolo come un marchio di autenticità. Voi sembra di no invece.

Buux: Per noi la questione è come suona una cosa. Per la verità, negli anni Novanta, quando registravamo il suono era lo-fi per il semplice fatto che non c’erano altre possibilità. Ora è molto diverso. Se ascolti gli Exploited, per esempio, noterai un cambiamento simile, è stato così anche per loro. Quindi se loro possono, perché noi no. Nonostante tutto la nostra attitudine non è cambiata.

L: Secondo voi qual è la chiave per cambiare senza perdere l’attitudine?

Buux: È una questione di contenuti. Si tratta di non edulcorare, soprattutto i testi, e mantenere, per quanto mi riguarda, il riffing identico. Che lo si produca in un modo o un altro. Se senti Bubun, il nostro batterista, suona in un modo tutto suo; nessuno suona come lui. Quella è l’attitudine.

Rob: Sì, nell’era dell’analog semplicemente ci sentivamo bloccati da un sacco di limiti. Era una questione di strumenti.

L: Secondo voi c’è qualcosa di unico nella scena punk indonesiana che non c’è in altre attorno al mondo? O qualcosa che almeno sentite molto vostro?

Buux: Credo che l’attivismo sociale sia una cosa molto radicata qui. Per esempio, avere dei fundraising non solo per progetti specifici e amici del circuito, ma anche per gente normale. Andare a eventi in cui serviamo cibo gratis per chi ha difficoltà economiche, o organizzare market in cui si devolvono vestiti o altre cose. Insomma fondi gratuiti a cui la gente poteva attingere.

L: Quali sono i valori del punk che avete assorbito?

Buux: Quello dell’incontrarsi e fare comunità su tutto. Poi ovviamente c’è il senso di protesta. Il fatto di trovarsi a combattere contro qualcosa ed esprimerlo costantemente e dappertutto: nei testi, nelle patch, in tutto quello che può aiutare a comunicare, a spargere un’idea. In tutto questo c’è il discorso dell’autonomia, dell’essere indipendenti da tutto e tutti.

L: E per quanto riguarda le vostre influenze indonesiane o dall’estero?

Rob: Sicuramente: Ramones, Exploited, Discharge, Gorilla Biscuits, Rancid, Sepultura, Amebix, Toxic Holocaust.

Buux: in generale a tutti piacevano gli Exploited, quindi credo che quello sia il gruppo da cui abbiamo preso di più.

L: Quali sono le difficoltà di portare avanti un gruppo da trent’anni?

Rob: Devo dire che non ce ne sono state molte. I problemi che abbiamo avuto riguardo il gruppo li abbiamo sempre risolti comunicando e mettendo i Turtles al primo posto. Certo, in questo aiuta il fatto che ognuno di noi ha tuttora un lavoro durante il giorno. Per quanto riguarda la band, cerchiamo di farla stare su soprattutto col merchandise.

Buux: E siamo anche fortunati, tendenzialmente le persone comprano più merchandise dalle nuove band, perché è prodotto in maniera più professionale o da etichette con più dimestichezza nel music business, mentre noi siamo abbiamo sempre fatto le cose a modo nostro e nei nostri circuiti, e tutt’ora è così.

L: Quanto è stato difficile portare l’hardcore punk alla gente negli anni Novanta? Oggi è diverso?

Rob: Ora è ok: la gente capisce che cosa facciamo, e probabilmente, anche per il fatto che siamo diventati abbastanza popolari, è in grado di accettare l’esistenza di musica come la nostra.

Buux: All’inizio c’era moltissimo stigma. Non davano il permesso di fare concerti di questo genere, e non restava altro che farli illegalmente. Il fatto che oggi una musica come la nostra sia compresa e accettata è anche dettato dal fatto che quegli stessi ragazzini che ci supportavano anni fa sono cresciuti.  Cosa che dimostra, in realtà, come anche allora una grande parte della popolazione voleva la nostra musica.

L: Ma voi siete in contatto con la scena internazionale? O siete più concentrati sull’Indonesia?

Rob: In realtà siamo molto più concentrati sulla scena internazionale. Uno dei nostri obiettivi è quello di connetterci agli altri in altri luoghi, e girare nel circuito punk.

Buux: Dopo il tour UK del 2021 abbiamo mantenuto i contatti con la scena, abbiamo molti amici lì. Pensa che abbiamo recentemente ricevuto inviti da persone attive nella scena emo e deathcore, e anche suonato in festival grindcore.

L: Storicamente Bandung è una città metal, ma ultimamente la rigenerazione della scena sta cominciando a essere meno costante. Al contrario il punk sembra essere sempre più vivo. Siete d’accordo? E se sì, secondo voi perché?

Buux: Bandung è stata insieme a Jakarta il posto dove queste scene sono nate. Non so perché il metal non è più unito come una volta, ma tendenzialmente questi erano i posti dove negli anni Ottanta trovavi le cassette dei gruppi d’altre nazioni, di altre scene. C’era Aquarius Records, che ora non esiste più… un luogo leggendario, dove trovavamo di tutto.

L: Nel metal ci sono molti gruppi che utilizzano il sundanese, la lingua regionale dell’omonimo gruppo etnico di West Java. Nel punk succede?

Buux: Sì, ma è solo sundanese di basso livello, quello che la gente parla per strada, in segno di protesta verso le gerarchie sociali e l’etichetta.

L: Secondo voi perché certe persone rispondono di più alla vostra musica?

Buux: Nelle fasce più basse della popolazione, molti vedono nel punk le loro stesse problematiche, e sono attratti dalla libertà che il punk esprime. Persone che hanno abbandonato la scuola, che hanno poche possibilità o hanno semplicemente problemi a casa. Il fatto è semplice: non esistono regole nel punk. Certo, ci sono anche persone ricche che diventano punk, ma accade sempre in reazione a un ambiente che li ha riempiti di regole. È un’opposizione a un sistema.

Rob: Sì, semplicemente accade che d’un tratto vedono i sistemi che regolano la loro vita da quando sono nati. Ecco che nasce il punk: una risposta alla sistematizzazione di queste norme.