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Timothy Small

Il bilancia ascendente bilancia dell’editoria

quartiere Centrale

Written by Piergiorgio Caserini il 16 February 2022
Aggiornato il 28 February 2022

Foto di Luca Grottoli

Tim Small è letteralmente passato per le redazioni e i giornali online più in voga degli ultimi dieci anni. Vice, Prismo, The Towner, L’Ultimo Uomo, il Tascabile. Di alcune è stato tra i fondatori, a volte esplicito altre schiscio, di altre il direttore, a volte esplicito e altre schiscio, insomma: una vita nel giornalismo quando il sogno era fare lo scrittore di romanzi. Come (quasi) tutti. Ma è così che ci si appassiona a un lavoro, a una figura, a una storia. Soprattutto quando si è bilancia ascendente bilancia e non si ha modo di nascondersi, mai. L’abbiamo incontrato in un’enoteca, ci siamo scoperti dei buoni bevitori, e abbiamo fatto un recap tra scrittura, giornalismo, e quartiere centrale.

«È una smania di fare piuttosto che vivere le cose passivamente.»

 

Riesci ancora a scrivere col tempo che ti ritrovi?

Sì, più che altro lo faccio perché mi fa piacere fare una cosa. Ho recentemente fatto per Rivista Studio un’intervista a Diego Rossi, il cuoco di Trippa, perché mi piaceva e mi sta molto simpatico – ma soprattutto parliamo di un ristorante pazzesco –, e i ragazzi di Studio sono amici. 

Ti manca?

Sì e no. Nel senso, ci ho passato tanti anni nella mia vita, e ultimamente me ne sono un po’ allontanato. Progressivamente ho preso le distanze dall’idea di giornalista, che in fondo è una figura che non è mai stata una mia passione. Da ragazzino volevo fare lo scrittore di romanzi, e come tanti – un po’ tutti – sono stato vittima di quel meccanismo per cui cresci sentendoti dire che non potrai mai vivere facendo lo scrittore. Da lì a finire a fare il giornalista è un attimo. Considera poi che ho questa attitudine a fare sempre felici un po’ tutti ed è fatta. Magari ti dici anche che è “un po’ come scrivere”, ma in realtà no. È completamente un’altra cosa. Ha ovviamente la sua dignità e la sua storia – che mi ha affascinato ed è affascinante –, ma non è mai stato il mio sogno. Sarà per questo che ho sempre fatto anche altre cose, con Vice i video, in Alkemy i branded content tra giornalismo sportivo e culturale. Insomma, mi sembra abbastanza naturale che ora non lo faccia più, almeno come lavoro. E comunque scrivere mi piace. 

È un grande classico: chi vuole fare lo scrittore di romanzi si ritrova a fare giornalismo, incappando in quella trappola sottile del reportage narrativo o del pubblicare qua e là per starsene tranquilli.

Certo, ci ho lavorato tanti anni sul reportage narrativo. Ciò che dici è vero, ma forse e soprattutto è un problema nostro, come generazione, o al limite un problema mio. Non so se capita anche a te, che appena ti appassioni a una cosa la vuoi fare. Ho amici che pensano “bello andare al bar” – “Apro un bar”. “Bello lo sport” – “Faccio il giornalismo sportivo”. È un fatto che indica quanta poca certezza ci sia. È molto più facile prendere delle cotte per delle cose, il che, per altri versi, facilita il buttarsi nell’ignoto. Poi c’è chi la fa bene, ma questa voglia di lanciarsi è molto tipica di oggi. È una smania di fare piuttosto che viverle passivamente. Ma bisogna anche dire che se ti piace il cinema non devi per forza scrivere un trattamento per una sceneggiatura. Insomma, vedi proprio che la loro pratica è l’esplorazione per quell’argomento. 

Insomma, un lanciarsi a capofitto nelle cose, ma prima devi anche innamorartene, no?

Tutti hanno un primo contatto con qualche amore, e poi si prosegue. Ma tanti si buttano prima e imparano facendolo. Oggi poi ci sono molti più sistemi, pensa a chi vuole fare il giornalista. Ormai è impossibile pensare di andare in una grande redazione, imparare, guardare, farsi insegnare e diventare caporedattore dopo dieci anni… è più l’idea di aprire una rivista indipendente e vedere come va. Un approccio che ha contraddistinto anche la mia vita. Mi sono sempre buttato nelle cose con una certa irruenza, più per una visione che altro. Con il pensiero rivolto a fare una cosa che mancava più che capire come partire.

Dove hai imparato a tuffarti così con irruenza?

Guarda, da questo punto di vista Vice è stata una scuola. Per Vice sono stato uno dei primi direttori. Assieme a Federico Sarica che adesso è a GQ e Fabrizio Ferrini che ora fa HUNTER – fashion magazine. Io avevo 23 anni, e venivo da Londra. Ho fatto lo stagista per due anni, e anche lì mi ci sono buttato. Come se non bastasse – all’irruenza – dentro Vice c’era anche quest’idea per cui nascevano in continuazione cose nuove: facciamo la radio – sappiamo come si fa; facciamo documentari in tutto il mondo – e si prendono 100 “giornalisti” ventottenni che si mettono a fare documentari. E si impara a farli facendoli. È una forma mentis, un approccio alla vita, che è diventato mio ma che forse lo è sempre stato. Il mio approccio e la mia formazione. 

Ma passiamo a The Towner. Una redazione folta, che arrivava da Prismo ed è finita nel Tascabile (Cesare Alemanni, Pietro Minto, dopo Matteo de Giuli, Francesco Pacifico, Stella Succi, Giulia Cavaliere, e Olimpia Zagnoli da art director). Lì c'era l'intento di raccontare la città non atraverso gli eventi, ma raccontandone le storie. Quelle che sapevano delineare e circoscrivere gli aspetti dell'urbano, dal divertimento alle "voci"... ci rivedo un po' il nostro Hyperlocal.

Hai ragione. Ci siamo resi la vita difficile, raccontando le città senza fare distinzioni e scansando gli eventi. Si trattava di parlare delle città da un punto di vista umano, culturale, attraversando i personaggi e i loro luoghi… Insomma, volevamo raccogliere alcune sfaccettature dell’anima dei luoghi, se così si può dire. Che poi è una cosa molto presente e comune quando si parla di città. Pensa a quando un amico ti racconta dei propri luoghi: la maggior parte delle volte non è una storia di strade, di urbanistica, di eventi, ma una storia pazza che dipinge un’atmosfera, e costruisce così un luogo. Ed è quello è ciò che rimane. The Towner poi non era solo sulle grandi città, e anche per questo era un progetto complicato, ma abbiamo comunque raggiunto dei bei risultati. Anche se è durato soltanto un anno abbiamo scritto tantissimo, anche in inglese – e per complicarci la vita non traducevamo i nostri pezzi, ma avevamo due redazioni separate. Molti se la ricordano come una cosa speciale.

Insomma, le storie individuali sono un po’ il tentativo di restringere l'imbuto in quello che la città offre come insieme disparato di cose. Ci rivedo la direzione dei quartieri della Milano di questi anni, ma anche quelle tendenze ai localismi che si rilanciano fuori dai centri urbani.

Guarda, io sono sempre stato affascinato dall’idea di andare a vivere in un paesino. Mia mamma è cresciuta in un paesino, e in generale la storia della mia famiglia è piuttosto stramba. Mia madre viene dalla Brianza, e c’è una parte di me che è quello. Mio papà è nato ad Alessandria d’Egitto da padre inglese e madre egiziana: tutto un altro mondo. Così nella mia vita ho sempre avuto questo, da una parte la Brianza, il paesino, e un lato molto pragmatico che viene da lì… ma forse è una cosa di oroscopo. 

Ah, e che segno sei?

Bilancia ascendente Bilancia. E adesso ti dico anche il resto della mia carta astrale. Ho la Luna in Cancro, Mercurio e Venere in Bilancia, Marte in Sagittario e Giove in Scorpione. 

Hai idea di cosa significhi?

So quello che c’è scritto su Co-Star, cosa devo sapere. [Ride.] Non ne so un cazzo ma mi diverto un casino con l’oroscopo. L’ho sempre odiato e negli ultimi anni me ne sono appassionato. Comunque, so che l’ascendente è la parte più importante.

Giuro che me l'hanno spiegato più volte ma non l'ho mai capito.

Giuro che me l’hanno spiegato più volte ma non l’ho mai capito. 

Allora, è semplice: il tuo segno di sole è il tuo io interiore. Chi sei cosa fai a casa tua da solo. E l’ascendente è la faccia che mostri al mondo, la tua maschera sociale diciamo. Io bilancia ascendente bilancia non ho via di fuga. Ho scoperto, con un’amica che è molto più esperta di me, dice che secondo la mia carta astrale sono un “gioviale esteta indeciso”. Ti piace?

Molto bello. Ti ci vedo. Ma tornando alla tua esperienza nell’editoria da gioviale esteta indeciso, tutte quelle attività, da The Towner a Vice a Prismo – prima del Tascabile –, fatte insieme non erano un po’ schizofreniche?

Beh, c’erano delle persone che si occupavano del giornale. Io ero più una specie di tiratore in mezzo di persone, un progettista. Impostavo con i direttori vagamente la linea editoriale, vagamente perché ho sempre creduto che si lavori meglio circondandosi di persone brave e lasciandogli fare il loro lavoro, ciò che gli viene meglio e che io magari non so fare. E ti ripeto, è nato tutto molto energico, un amore primaverile, entusiasticamente, e poi si strutturava. 

Cosa stai facendo invece ora?

Adesso sono Direttore Creativo di due agenzie che lavorano assieme. Una è digital e l’altra è la casa di produzione creativa. Principalmente foto e video, ma abbiamo anche dei podcast. Mi piace, comunque lavoro con i contenuti, ma senza quel passaggio di mezzo in cui devi andare dagli inserzionisti a chiedere soldi.

Come è cambiata la realtà della produzione dei contenuti rispetto ai branded?

Allora, ci sono giornali “puri” che fanno contenuti orrendi e branded content che sono bellissimi ma anche giornali non branded che sono buonissimi. Dipende da come li fai, da come imposti il progetto. Ovviamente stiamo parlando sempre di contenuti del mondo culturale, di costume; è ovvio che è un po’ più complicato fare branded content e parlare di politica. Che poi in Italia il giornalismo è sempre stato legato ai grandi gruppi industriali e ai loro interessi, non stiamo parlando del New York Times, della purezza che se copi una frase vieni licenziato. Qui in Italia siamo più caciaroni.

Meglio comme ci o comme ça?

Il fatto che io sia Bilancia ascendente Bilancia… [ride.] No, tendo a essere molto relativista. Forse anche perché sono mezzo di un paese e uno di un altro, e non è che uno aveva torto e l’altra no, insomma, chi aveva ragione tra i due non lo so, è una domanda da fare alla mia psicologa. Questo per dire che ognuno ha le sue storie e le sue sfumature sociali, a livello economico, politico, culturale e la storia del giornalismo italiano è questa. Che poi anche sul giornalismo americano non è che William Randolph Hearst sia stato un santo. Non so nemmeno bene dove voglio andare a parare. Ma il punto centrale è che se provi a fare le cose per bene le puoi fare in tanti modi diversi.

Già che ci siamo: due parole sul giornalismo oggi, che non è il tuo sogno, e che sta cambiando radicalmente tra newsletter, blog, redazioni blindate e così via.

Urca. Allora, la rivoluzione digitale – che sta cambiando un po’ tutto – ha certamente reso il giornalismo più aperto, facendogli venire a mancare le posizioni intermedie. Non c’è un centro, ci sono persone che fanno delle cose per il loro pubblico, insomma: è internet. Tu ti crei il tuo pubblico e poi un giornale ti chiama per andare in redazione – e non pagarti un cazzo. C’è gente che fa newsletter sui vini georgiani, sulla scena underground in Cecoslovacchia, non ci sono più regole ed è molto più feroce e crudele, ma anche più bello. Più disparato, individualista, e l’unica cosa che direi è che piuttosto che puntare tutto su una sola persona è bello scrivere delle cose con altri, creando dei gruppi, delle relazioni, quello che vuoi. 

Che ci dici invece di Centrale? Ci sono storie alla The Towner?

Ciò che mi piace di questa zona è che sei nel mezzo di un mucchio di roba, di tutta la fascia di locali e luoghi che di Milano Nord. Porta Venezia, Isola, NoLo, ma anche Venezia e Parigi. Poi in verità, lavorando sempre, quando esco vado a bere da Palinuro, che sono un po’ un appassionato di vini. Non estimatore eh, più che altro un grande bevitore. Ma c’è da dire che ti basta andare una volta a un’asta di vini pregiati, prendere una bottiglia da 400€ e da quel momento nessuno potrà mai più dirti che sei un alcolizzato. Piuttosto: un estimatore di vini pregiati. Poi fai un commento sui tannini, se è champagne dici qualcosa sulla fermentazione malolattica, e tutti penseranno che ne sai un sacco di vino. E vivi così, da impostore. Bello.