Il botto del tamburo, il tintinnio di uno xilofono o lo squillo di una marimba: il linguaggio della percussione è l’indubbio fondamento del ritmo. Cosicché qualcosa di rituale avviene nell’ascolto tra le pause e i tonfi delle note percosse, e ha a che fare con un gusto che è proprio della pulsazione. Gusto che, secondo Elio Marchesini, avviene nell’attenzione data alla composizione ritmica, che mai è soltanto suono o rumore, ma riguarda lo spazio “infrasottile” del silenzio. Allora il suono va prima di tutto accolto, poiché segnala e indica un evento. Percussioni: silenzio. Qualcosa ha suonato, qualcosa è accaduto.  Tra John Cage e l’accento sul silenzio, tra l’importanza dell’arte performativa, del Kintsugi di Chiara Crepaldi e la frequentazione di Davide Mosconi, Elio Marchesini racconta del suo gusto per le percussioni e dell’isola musicale colta di Milano, in vista dell’esecuzione di Having never written a note for percussion di James Tenney, con una performance di Chiara Crepaldi all’Hyperlocal Club dedicato al Centro di Milano.

«Questo brano di James Tenney è praticamente una nota, una nota che cresce. Partendo dall’inudibile, cresce fino ad arrivare al massimo della forza e poi torna da dove è partita.»

Matilde Manicardi: Le percussioni sono sempre state al centro della tua pratica musicale? Come ti sei avvicinato inizialmente?

Elio Marchesini: È iniziato tutto da un misto di batteria e pianoforte. Per quanto riguarda le tastiere, le percussioni hanno un parco strumentale che è praticamente un proseguo del pianoforte. Vibrafono, marimbe e xilofoni sono una riduzione di quello che hai sul pianoforte. Arrivando anche dalla batteria, ho tradotto il gesto ritmico sulle tastiere e mi sono specializzato sulle percussioni a suono determinato. Il gusto per la pulsazione, ma anche il piacere dell’accordo, delle note intonate, mi hanno avvicinato alle percussioni classiche. Ho dedicato praticamente tutta la mia vita alla musica di ricerca, soprattutto alla musica contemporanea.

MM: Ho visto che sperimenti con una varietà di percussioni molto ampia.

EM: Per un percussionista che si vuole esprimere in questo territorio è fondamentale avere un parco strumentale molto ricco. Nei viaggi di lavoro, che succedono abbastanza spesso, mi affascina cercare nuovi strumenti, soprattutto etnici.

MM: Se potessi fare un viaggio intorno al mondo, quali sarebbero le tappe principali legate alle tue percussioni preferite?

EM: La mia risposta è dettata più dal cuore che dal gusto. Se dovessi risponderti in maniera professionale ti direi in Oriente. Uno dei miei focus da questo punto di vista è la zona dei templi a Tokyo, dove si arriva passando dalla zona delle cucine. Si chiama Ueno e c’è un negozio di strumenti, famoso nel mondo per le percussioni, che raccoglie una quantità enorme del parco strumentale giapponese. Ma anche con uno sguardo agli strumenti nuovi che nel mondo della percussione nascono tutti i giorni, perché lo strumento a percussione è in continua evoluzione. Però io seguo il cuore e il cuore mi dice l’Africa, in particolare il Burkina Faso, perché avendo a che fare con la pulsazione ti rendi conto che, da quel punto di vista, lo stimolo creativo e di linguaggio arriva da lì.

MM: E invece, tornando a noi, al momento su cosa stai lavorando?

EM: Il mio lavoro è costantemente quello di ricerca, dell’ensemble di musica contemporanea. La cosa che mi sta coinvolgendo di più ormai dal 2017 è la collaborazione con il Divertimento Ensemble, un’eccellenza in Italia per quanto riguarda la musica contemporanea. Attraverso questo ensemble abbiamo modo di confrontarci con compositori da tutto il mondo, spesso dall’Oriente, dove c’è una particolare attenzione verso la musica colta occidentale. Ogni anno faccio in modo che ci sia un progetto, attivo con il Divertimento Ensemble, composto da una serie di incontri con giovani compositori al termine dei quali scriviamo insieme un brano dedicato a una percussione. È un’iniziativa meravigliosa perché mi dà la possibilità di lavorare con musicisti giovani che hanno una visione nuova. Questo per me è importantissimo.

MM: Recentemente, durante il concerto di Having Never Written a Note for Percussion di James Tenney con i Divertimento Ensemble, ho visto che sei stato accompagnato dall’artista Chiara Crepaldi mentre praticava il Kintsugi, l’arte millenaria giapponese del restauro.

EM: E lo rifaremo in Triennale il 2 luglio! James Tenney è un compositore che fa parte di un’onda musicale, il periodo Fluxus, che io ho sempre amato e continuo ad amare molto, insieme a John Cage e La Monte Young, fra gli altri. E questo brano di James Tenney è praticamente una nota, una nota che cresce. Partendo dall’inudibile, cresce fino ad arrivare al massimo della forza e poi torna da dove è partita. Il mio incontro con Chiara, che è anche la mia compagna di vita, ha aggiunto un aspetto visivo con la pratica del Kintsugi. Il crescendo di questa nota si traduce visivamente in un vaso di ceramica, una creazione di Chiara che ha solitamente la forma di un uovo, mano a mano reso visibile riempendolo di colore. Quando raggiunge il massimo del colore, insieme al massimo della forza e del volume, Chiara distrugge questo uovo e con la sua distruzione il suono ritorna ad essere inudibile. Nel ritorno del suono e nella rinascita dell’uovo rotto attraverso l’arte del Kintsugi, Chiara ripropone in un’altra vita quello che aveva distrutto al massimo della forza. All’inizio lo facevamo io e lei, con un tamburo e un timpano sinfonico. In Triennale invece lo faremo con dodici timpanisti.

MM: Non è la prima volta che nei tuoi concerti dialoghi con l’arte performativa.

EM: È importantissima per me perché appartiene alla mia storia, essendo stato a strettissimo contatto con l’artista Davide Mosconi fin dagli anni del conservatorio. Grazie a lui ho legato la parte puramente esecutiva del musicista con la parte performativa. Il gesto non sempre è legato alla produzione del suono ma spesso è anche legato a sé stesso e questo mi ha aiutato ad affrontare brani come John Cage o lo stesso James Tannen già a 18 o 19 anni, ancor prima di laurearmi.

MM: Da John Cage con 4’33’’ (1952) a Piero Manzoni con Afonia Milano (per cuore e fiato) (1961), stavo leggendo un saggio in cui l’artista Sergio Lombardo ha definito questo approccio come “astinenza espressiva”, da lui stesso sperimentata con il Progetto di Morte per Avvelenamento (1970–1971). Che valore ha per te l’astenersi dal suono o dal gesto volontario?

EM: Un valore enorme. In 4’33’’, John Cage scrive un brano fatto di silenzio. Mi ricordo che le prime volte che si parlava di questo lavoro molti dicevano che erano espressioni artistiche di contestazione, ma in realtà gli artisti, secondo me, non hanno mai voluto contestare nulla. Il lavoro di John Cage in particolar modo è tutt’altro che contestazione, è accoglienza totale; accoglienza di suoni, accoglienza di eventi. È creare uno spazio in cui si può stare attenti a ciò che succede. Lui ha messo un accento su un aspetto importantissimo della musica. Quando parlo di questo brano penso sempre a un esempio: se tu, dopo questa chiacchierata, dovessi dire che cosa ha fatto Elio prima, diresti che Elio ha parlato. Elio non ha parlato. Elio ha detto cose usando la parola, però ha anche inframezzato la parola con tanti piccoli silenzi. E anzi, quei tanti piccoli silenzi, come sto facendo adesso, ti fanno rendere conto di quanto fino a ora non sei stata così attenta a quello che ho detto, quanto non lo sei adesso, in questo momento.

MM: È interessante chiedersi se l’ambiente culturale e politico abbiano o meno avuto un’influenza su questo tipo di riflessione. Porre un’attenzione massima sul silenzio, l’ascolto, in un momento di completa transizione per l’America, nel secondo dopoguerra del boom economico…

EM: Chissà. Quando Cage veniva considerato appunto un artista di rottura e i suoi lavori visti con una certa violenza, lui rimaneva stupito. Io credo che siano gli artisti stessi a condizionare la politica, e non viceversa. Poi, dopo, la parte meno nobile della politica usa malamente questo ritorno da parte del mondo della cultura. 4’33’’, così come Empty Words, sono lavori di una semplicità estrema. All’interno di un concerto in cui hai uno strumento e uno strumentista, dove lo strumento è costruito per essere suonato e lo strumentista ha studiato una vita per suonare quello strumento, John Cage ha creato una situazione in cui le due cose si estraniano dalla loro funzione d’origine per entrare in comunione con il pubblico, che è lì per ascoltare. Non devi essere un cultore della musica contemporanea o di chissà quale aspetto artistico per godere di una cosa così semplice, no? Invece molti hanno voluto trovare una difficoltà di interpretazione.

MM: Tornando a Davide Mosconi, che oltre a essere musicista e compositore era anche fotografo, volevo chiederti se, avendo lavorato come curatore delle sue opere, pensi di aver imparato qualcosa di nuovo sulla musica attraverso la fotografia.

EM: Nel lavoro con Davide l’immagine era fondamentale, anche quando si trattava di musica. Il taglio visivo era spesso la musa ispiratrice del suono. Infatti molte sue composizioni, per essere eseguite, devono essere immaginate visivamente. Mi viene in mente un brano che si chiama Asparagus, dove c’è un numerosissimo gruppo di persone, tutte legate, che suonano degli strumenti a fiato. Camminando legati e suonando come dei matti devono irrompere all’interno di un concerto, di un qualsiasi concerto. Mentre c’è un pubblico che sta ascoltando, dal fondo della sala entra questo cespo di asparagi suonanti. L’effetto che fa è un po’ di risate isteriche, perché vedi un mostro a tante teste e tante braccia che urlante si muove tra il pubblico. I suoi brani mi hanno sempre dato l’idea di essere stati composti per venire fotografati. Mi viene in mente la foto della donna che suona l’arpa; quella fotografia è anche una composizione, perché all’interno di una maglia che copre sia lei che lo strumento, la donna sta cercando di pizzicare l’arpa.

MM: Spostandoci invece a Milano, sarei curiosa di sapere cosa pensi della scena musicale, a livello di musica contemporanea.

EM: Ho l’impressione che l’Italia sia un’isola felice per quanto riguarda la musica colta. Ci sono degli ensemble di musica contemporanea che vivono in maniera anche piuttosto longeva, come per esempio il Divertimento Ensemble o i Sentieri Selvaggi. Ci sono gli spazi dove questi ascolti possono essere fatti. Poi a Milano c’è una forte scena underground, mi verrebbe da chiamarla, nel senso che ci sono dei concerti che possono essere veramente considerati rari. Con degli artisti che non sono per forza blasonati, che sai essere di alto livello ma che hanno comunque delle cose molto interessanti da dire. Adesso in Fabbrica del Vapore verranno i Neko 3, un gruppo stupendo che fa musica elettronica e spero che sia pieno di gente. L’offerta c’è e lo dimostra il fatto che un gruppo danese venga proprio a Milano, con una strumentazione e delle spese importanti. E il ritorno del pubblico è meraviglioso. C’è anche questo da dire, che Milano risponde. Vedo molto interesse nella musica di ricerca, soprattutto tra i giovani c’è voglia di conoscere. Probabilmente perché con questa abbondanza di stimoli si ha paura di rimanere intossicati, quindi la ricerca ci permette di provare un po’ tutto per capire qual è il gusto personale; che va ascoltato, visto, assaggiato.