«Maybe this the album you listen to in your car when you driving home late at night. Really questioning every god, religion, Kanye, bitches. My pussy teaching ninth-grade English, my pussy wrote a thesis on colonialism. In conversation with a marginal system in love with Jesus And y’all still thought a bitch couldn’t rap huh?». Inizia così “Room 25” di Noname, uno degli album più interessanti usciti nel 2018. La meraviglia qui si accende dal primo all’ultimo brano, le storie sono piccoli libri tascabili, come quelle prime rappresentazioni di Erykah Badu e Lauryn Hill. Poetico disagio, il suono vintage senza essere nostalgico, la frenesia anarchica di Nina Simone. Rabbia soffiata su tappeti jazz e soul, orchestra che intona marce politiche: fiati, ottoni e autodeterminazione.
L’urgenza espressiva di Fiona Apple, la capacità di posare lo sguardo su dettagli esili che rivelano complesse costellazioni, la ricerca di sé nei buchi di una maglietta sudicia, nella fluida (in)coscienza delle prime esperienze sessuali, corpo che muta, diventa, esplora. Euforica attesa, spasmodica ricerca della propria voce narrante con gli occhi sgranati, grandi e aperti, pronti a trasformarci in una cineteca ambulante, accoglienti; in una camera oscura che divora quando, spaventati, si chiudono. La purezza grezza che altera la simbolica concezione morale della conservazione, sporcarsi per divenire, per crescere, scendere ai livelli delle ginocchia quando tremano, ai livelli del suolo quando si scappa alla ricerca di un nascondiglio.
Noname mette in mostra una collezione di immagini frastagliate, non occorre ricomporle per restituire rassicuranti versioni di sé, in questo luogo tutto è in discussione: dio, religione, Kanye. Onesta, cinica e romantica. Un rap bisturi di precisione, che incide conflitti interiori. Libera di commettere errori. C’è ancora tempo per nuove cicatrici. To Be Young, Gifted and Black. In una stanza tutta per sé.
Scritto da Paolo Santoro