Forse ve lo ricordate. Forse no. Nel primo caso tornerete nel secondo sbrigatevi ad andare. Perché qui c’è la vera scena del clubbing, quella originaria.
A chiedersi il senso di “originario” bisogna che sperimentiate un’esperienza psicotropa a seguito della digestione di un buon risotto ai funghi cresciuti all’ombra di una foresta. Quello sì che è originario: lo diceva pure Huxley in Le Porte della Percezione, dopo essersi preso dell’LSD in gocce e aver guardato una seggiola in legno e aver provato le stesse sensazioni che provò a sua volta Van Gogh sentendosi tale e quale al Vincent. Vero o falso che sia, quello è originario. Altro modo per dire “originario” in questo contesto – ma ugualmente, se non maggiormente, appropriato – è quello di dirvi della scena rave degli sgaloppanti anni Novanta nel Midwest americano, in cui DVS1 (che si chiama Zak Khutoretsky) venne in pratica svezzato e battezzato alla tenera età di diciotto anni.
Descriviamo un arco espressivo per i nescienti: dai suoni acidi di una techno gioventù convintamente e politicamente rinnegata dal sapore cyberpunk, generazione nata da pochi anni tra i fumi e i metalli della motorcity di Detroit e che da lì a poco avrebbe assistito all’iperstizione per eccellenza con il fallimento della città intera, fino alla maturità di una techno emozionale con battiti profondi come i cuori polverosi delle metropoli e synth storti come un’allucinazione che sale all’angolo buio delle strade.
L’immaginario cinematografico e cromatico che vi proponiamo per il viaggio con DVS1 è Dark City (1998). Dovessimo poi dirvi dove ha suonato vi si schiaccerebbe il petto.
Scritto da Giacomo Prudenzio