Il lavoro di Luca Staccioli è sempre stato di difficile collocazione, e qui proviamo a darvene ragioni. Una su tutte, per esempio, è quell’uso disparato dei mezzi espressivi che fa sì che non si possa dire che l’artista dipinge, scolpisce, installa, performa, filma e monta; ma si debba soltanto constatare che fa mostre, progetti, ricerche e li restituisce diversamente di volte in volta. Seppur ammettiamo che “fare ricerca” è una di quelle cose che si dicono spesso e molte volte a casaccio sparando sulla croce rossa, va rimarcato il fatto che è giusto, e la ragione è semplice: quello che fa la differenza è il portato della sensazione, della sensibilità che chiama una ricerca piuttosto che un’altra e la porta avanti. Luca è così: nel corso degli anni abbiamo visto ricami, dipinti, fotografie, sculture e sculture digitali, video, installazioni, diorami, tanto che si può e si deve dire che Luca adotta i mezzi espressivi che ritiene più pertinenti alla sensazione che li guida. Il ché significa che Luca lavora principalmente sulle sensazioni che lo sconquassano, così che l’esperienza diventi suggestione e allora racconto.
Diamo per certo, infatti, che Luca s’interessa e soprattutto adora le narrazioni, e l’esempio più plateale è quella sottospecie di inclinazione autistica che spesso permea i suoi lavori, un’attitudine che vuole che ogni cosa sia sempre al suo posto, che ogni elemento sia concorde a un racconto e che ogni racconto sia il dilungarsi di una sensazione. Parlando per esempi: in Je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifference du monde, il mezzo erano souvenir e ricami (sugli oggetti, tipo cozze), e il lavoro aveva come riflessione il viaggio, la memoria e l’esotismo à la Victor Segalen; in Donner à voir era una storia di famiglia (inventata o meno non s’è mai capito): quella di un antenato esule che rubò il cognome a un commilitone e divenne “Staccioli”, mentre il materiale in mostra erano diapositive bruciate dal sole e dal sale, finte (?) riproduzioni di documenti d’archivio e diorami.
Diciamo quindi che Luca, come mi disse una volta, pensa a un’ecologia delle immagini: a come dosare quello che si vede ma anche quello che si ricorda, e quindi come far sì che il complesso o il mosaico che ne esce sia abbastanza coeso da dar senso a un’esperienza o una sensazione. Ma anche, di contro, del come le storie, le convinzioni, le suggestioni e le credenze, e allora il senso e il non senso, che risultano dagli amalgami di queste immagini siano in fondo una questione di attenzione alle immagini stesse, ai ricordi e al come si costruiscono le storie personali (e allora lo sguardo sugli altri).
Pensieri infantili che anelano le origini del mondo, improvvisano soap opera con bambole e soldatini di plastica e sognano di uccidere e di lavorare come niente fosse.
Così, arriviamo a Wake-up Call, la personale da ArtNoble Gallery. Qui si presenta un’ampia selezione di lavori che rappresentano il lavoro di quasi due anni, in cui pare che Luca regredisca felice in un’infanzia dove la distinzione tra giocattolo, farfugliamento e turbocapitalismo si mescola in un brodo ambiguo. Di nuovo è il ruolo della memoria ma con un interesse specifico nella formazione. Al di là del ruolo ormai risaputo del giocattolo in veste di trasmissione e distinzione culturale, che qui è sfruttato in qualità di feticcio narrativo, il lavoro in mostra sembra ricercare proprio quel fantastichio (l’inventiamo di sana pianta, questa parola, per dare l’idea di alcuni avvenimenti del retroscena del cervello, o dell’anima, che si voglia) che solletica sempre l’immaginazione dei bambini: l’attitudine a mescolare le cose, a inventare nomi, luoghi e storie con quel che si ha, che in questo senso è sempre abbastanza, è sempre il giusto. Così che il bimbo che pare governi gesti, forme, combinazioni e immagini di questo Staccioli in mostra si può concedere di lavorare nei termini del mito, di quei pensieri infantili che anelano le origini del mondo, improvvisano soap opera con bambole e soldatini di plastica e sognano di uccidere e di lavorare come niente fosse.
Aspettatevi quindi diorami e giocattoli, carrelli della spesa e castelli-metope e campanelle da ricreazione (self-quote questa, di una mostra omonima del 2022 a Torino), e preparatevi a reimparare come guardare a questo mondo di merda dagli occhi di un bambino.
Scritto da Piergiorgio Caserini