Ci sono classici e grandi classici. Ecologia della libertà, di Murray Bookchin, è uno di questi secondi. Tanto che, per quanto ci riguarda, andrebbe serenamente inserito nelle bibliografie liceali, o quantomeno adattato (un po’ alla stregua de L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow), non fosse un saggio scritto nella durata di una vita, un saggio quasi testamentario, e per questo complesso nel senso in cui passa in rassegna l’intera civilizzazione a fronte di una domanda correlata a una certezza. La prima è che cosa significa la libertà?, e quali sono le sue condizioni di esercizio tanto quelle della sua ritenzione, vale a dire della sua riduzione all’obbedienza e alla gerarchia. La seconda è che il dominio dell’uomo sull’uomo inizia con il dominio dell’uomo sulla natura. Da tempi dunque decisamente anteriori al capitalismo odierno, e che ne stanno per diversi aspetti alla base (specialmente nei termini di questa “rivelazione della natura” che occorre in questi anni d’antropocene). Nella più piena delle tradizioni del pensiero anarchico, Bookchin riavvolge una storia di dominio e libertà tra mercanti e padroni, tra terre agricole, villaggi e paesi, tra teorie evoluzionistiche di stampo lamarckiano fondate sul mutuo appoggio e la cooperatività, tenendo sempre ben fermo un principio: l’unità sostanziale tra la vita e il suo ambiente, tra umano e natura, tra umano e umani, vale a dire società, può avvenire al di fuori dei meccanismi di depauperazione, sfruttamento e gerarchia – trovando per altro certe affinità con un’opera di un altro pensatore, accostabile all’anarchismo di stampo cristiano, che è l’Ivan Illich dello strumento conviviale e della nozione di salute.
Insomma, Ecologia della libertà (che è del 1982) è insomma un classico del pensiero anarchico e libertario, nonché il volume in cui Bookchin teorizza la sua ecologia sociale, che troverà poi un tentativo di applicazione nel suo municipalismo libertario, rivisitazione contemporanea del comunalismo federalista anarchico costruito sui tratti della bioregione, tema per altro ripreso più volte anche dai territorialisti italiani a partire da Alberto Magnaghi.
Lunga introduzione per fare un complimento al recupero di questo capolavoro nella mostra L’ecologia è sociale, in pratica al Circolo del Design di Torino, curata da Salvatore Peluso, cofondatore di DOPO?, che avevamo intervistato qui. Si tratta della seconda edizione di Earthrise – Design for a Living Planet (la prima fu affidata alla curatela boscosa di Elisabetta Donati de Conti), appuntamento annuale con mostra e public program per riflettere sulle pratiche di progettazione e d’immaginazione che impattano su quella palletta tutta blu che, fotografata per la prima volta dallo spazio nel 1968, ispirò per l’appunto il nome Earthrise a una delle più celebri foto del Novecento, spesso fatta coincidere con l’emersione della consapevolezza ecologica. Soli nell’universo, il pianeta come unica casa.
Così, la mostra curata da Peluso porta una serie di esperienze progettuali, tra collettivi di designer e architetti, che s’inoltrano e prendono le mosse da analisi socio-territoriali con sguardi attenti agli effetti e ai cambiamenti avvenuti nella crisi ecologica globale. Si tratta, com’è giusto che sia, perlopiù di attitudini progettuali su piccola scala, locale o territoriale per l’appunto, come i berlinesi Floating University con l’esplorazione collettiva di nuove forme di convivenza ed educazione, o il progetto Post Disaster Rooftop nella Taranto dell’Ilva, che riabita le terrazze della città, ma anche il collettivo svizzero Station+ che lavora su una proposta di legge europea per riqualificare edifici esistenti contro la speculazione edilizia. Si passa poi a progetti come Fulcrum di Marginal Studio, palermitani che esplorano l’evoluzione dell’artigianato locale a partire dal legno di mango, che dai paesi tropicali si sposta seguendo la calura alla Sicilia. Poi l’utilizzo di sabbie da maceria nella produzione industriale, riutilizzo di plastiche, esplorazioni paesaggistiche e campionamenti di sabbia e terra per reperire la tracciabilità del vetro – e allora la sua geopolitica (un po’ come la Geologia dei media di Jussi Parikka) –, nonché una sonorizzazione ambientale firmata da Threes Production.
Con fare perentorio e messianico, Murray Bookchin scriveva: «L’ecologia sociale o è o non è». Sicuramente oggi lo è in pratica.
Scritto da Giacomo Prudenzio