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SALVATORE PELUSO

Dopo?: una piattaforma per la discussione radicalmente politica e trasversale

Scritto da Giorgia Martini il 8 settembre 2023
Aggiornato il 26 settembre 2023

Vicini di casa ma anche internazionali, la strategia del campetto per conoscere persone e i nuovi luoghi per il dibattito diffuso e l’approfondimento critico. Salvatore Peluso, architetto, giornalista e curatore indipendente, racconta come DOPO?, lo spazio culturale di via Boncompagni 51, cerchi di trovare il proprio posto in una città in continua evoluzione, con l’ambizione di conciliare la vita di quartiere con progetti in giro per il mondo.

«La festa è uno strumento che gioca un ruolo importante.»

 

Sei direttore creativo e ideatore del master Heritage Innovation per Abadir – Accademia di Design e Comunicazione Visiva con sede a Catania. Nella presentazione si legge che lo scopo del corso è “ripensare il progetto culturale partendo dalla specificità dei territori e dei loro ritmi vitali”. È questo quello che state cercando di fare a Dopo? a Corvetto?

Sì, possiamo dire che il principio alla base è molto simile: resta l’idea di volersi inserire in modo organico all’interno di un contesto preciso, che in questo caso però è Milano e che quindi proprio per questo ha delle caratteristiche molto diverse rispetto agli scenari che di solito prendiamo in considerazione con Heritage Innovation. DOPO? vive forse nell’unica città d’Italia dove ci sia una così alta compresenza di sinergie e interessi economici. Se quindi con Heritage Innovation lavoriamo soprattutto sul concetto di lentezza, che caratterizza sia la comprensione che poi la realizzazione di un progetto al di fuori delle metropoli, qui le industrie della moda, della musica, del design, ci spingono ad accelerare moltissimo, ad avere sempre le antenne alzate per captare le possibilità che questa città ha da offrirci. In generale stiamo cercando di inserirci nel quartiere, scegliendo di organizzare e aderire a iniziative più “local”, il lavoro con Zero in primis è un modo per costruire un legame con Corvetto. In più la maggior parte di noi ha vissuto queste zone e assistito al cambiamento da pre-Fondazione Prada ad oggi, coltivando negli anni il rapporto con questo quartiere. Il nostro però è un tentativo di configurarci come realtà trasversale, che sia locale, cittadina ma anche internazionale. Per ora i riscontri maggiori li abbiamo avuti in relazione al nostro lavoro come architetti, ma l’idea è di andare ben oltre questa cerchia.

Oltre ad essere architetto e curatore, sei anche giornalista. Da subito Dopo? si è proposto come uno spazio per discutere, confrontarsi, informarsi e la sfida più grande è forse quella di riuscire a coinvolgere persone in modo trasversale, che esulino dalla bolla culturale che spontaneamente si è avvicinata per prima a questo luogo. Corvetto con la sua eterogeneità è un posto potenzialmente molto strategico per riuscire in questa impresa. Dopo? è un luogo per il dibattito politico?

Idealmente sarebbe molto bello, perché credo ci sia davvero bisogno di fare politica vera, dal basso e a trecentosessanta gradi. Il punto è che non so se sia il nostro compito, per diverse ragioni. Il nostro collettivo è molto unito se parliamo di visione in ambito architettonico, siamo tutti allineati sul fatto che la progettazione sia una dimensione culturale fondamentale di intervento sulla vita dei singoli e delle comunità. Ma abbiamo idee diverse se parliamo di politica in senso stretto e riuscire a collocarci in modo tanto omogeneo e solido da poter diventare promotori di iniziative politiche temo sarebbe complesso. Per questo forse dovremmo da un lato cercare di coltivarci come piattaforma, luogo che accoglie iniziative, anche politiche, e dall’altro diventare organizzatori e ideatori se si tratta di discutere di questioni politiche alla radice ma più trasversali. Ad esempio, fino a dieci anni fa, per quanto radicali e schierati, i centri sociali facevano un importante lavoro di aggregazione e approfondimento critico, erano luoghi per il dibattito e la discussione, luoghi che oggi mancano sempre di più. Ecco noi potremmo inserirci in questo spazio, ma proponendo un approccio che parte dal mondo dell’arte e dell’architettura per affrontare in modo trasversale tematiche specifiche, una su tutte sicuramente la questione del lavoro.

Ad oggi voi siete in un quartiere della prima periferia milanese e potete ancora ambire ad attrarre persone di contesti socioeconomici differenti. Come credi che la riconfigurazione urbana abbia influenzato la nascita e lo sviluppo di spazi di confronto e dibattito svincolati dalle logiche istituzionali, un po’ come erano i centri sociali di cui parlavi poco fa?

Sicuramente la “rigenerazione” ha in qualche modo estromesso, relegandoli ai margini del centro urbano, questo genere di spazi. Un esempio su tutti lo Zam, che per un anno circa ha occupato lo stabile in piazza sant’Eustorgio, dove ora ci sono la sede di Emergency e Enoteca Naturale, mentre loro si sono spostati al Gratosoglio. Certamente il fatto che questi spazi siano in zone facilmente raggiungibili è un incentivo per le persone a frequentarli, perché a Milano siamo ancora molto vincolati all’unità di misura bicicletta/passeggiata. Questo significa che se per andare a seguire un dibattito devo farmi 45 minuti di mezzi, probabilmente rinuncerò e con la decentralizzazione degli spazi occupati, si dirada anche l’attività di confronto che questi ospitavano e promuovevano. In qualche modo l’amministrazione sta cercando di dirottare questo genere di spazi verso una sorta di istituzionalizzazione, mettendo a disposizione bandi per il Terzo Settore. Questo ovviamente fa sì che la profonda radicalità che da sempre contraddistingue gli ambienti dei centri sociali, venga notevolmente contenuta, in virtù delle regole che serve rispettare per poter vincere i bandi.

Secondo te come può una realtà come la vostra provare ad instaurare un legame reale con le persone del quartiere, diventando nei fatti un posto di Corvetto?

Sicuramente la festa è uno strumento che gioca un ruolo importante. Magari ti spinge a venire una prima volta, ci conosciamo, capisci cosa facciamo e poi torni a quella successiva. Devo dire che praticamente tutti i nostri vicini sono passati di qui almeno una volta. Certo, è un inizio e la strada è ancora lunga, ma direi che questo è il modo migliore per farci conoscere. Tra il 2015 e il 2017 ho lavorato in un laboratorio di falegnameria al Gallaratese. Anche in quel caso il punto era come fare a coinvolgere le persone del quartiere e abbiamo capito che il modo migliore era uno solo: andare il sabato pomeriggio al campetto a giocare a basket con i ragazzini. Lì incontravamo i genitori e ci fermavamo a fare due chiacchiere, li invitavamo al laboratorio e un po’ alla volta sono entrati tutti in falegnameria. Per questo sono convinto che per generare questo tipo di interazioni siano più utili contesti informali e casuali, piuttosto che strategie di comunicazione definite. In questo senso, il bar Lucio è sicuramente un crocevia fondamentale per noi.