Quando da Zero… c’è una nuova mostra le certezze son poche, ma ci sono. La scelta della galleria di non lasciare indicazioni su quello che l’artista ha realizzato, sul suo percorso, o la mancanza di istruzioni per l’uso per la fruizione, per esempio. O quella seria ironia che gioca sull’illusione della messa in scena, che sia restituita da un ronzio di api pensato da Micol Assaël, o dalla destrutturazione spaziale totale attraverso schermi e installazioni di Neïl Beloufa. Altrimenti, non sarebbe Zero…, un luogo dove al pubblico viene chiesto uno sforzo visionario per vedere le cose da altre prospettive. Questa è, in fondo, l’attitudine che Paolo Zani, il fondatore, adotta: per ogni artista viene creato un rapporto di dialogo particolare e sfida con lo spazio. Con Adam Gordon accade questo: lo spettatore è lasciato a sé stesso a compiere un percorso al buio. Questo “buio” non è metaforico, ma rappresenta una scelta dell’artista americano (Minneapolis, 1986) di approcciare lo spazio partendo dalla luce, dalla sua assenza che rimanda a un’atmosfera interrotta.
Gordon, per la prima volta in Italia a realizzare una mostra personale, interviene nello spazio ribaltandone alcune visioni: come in una scatola cinese crea un esterno in un interno. E viceversa. L’artista, dopo aver lasciato due stanze non illuminate, caricando il pubblico di dubbi e titubanze – l’idea della “supercazzola” l’abbiamo, inizialmente, avuta tutti -, costruisce un piccolo vano in cui una luce al led illumina, poco, un vetro. Un’altra presenza, costante, è un ventilatore acceso – elemento che ogni tanto sbuca nelle installazioni o dipinti di Gordon –, che fa aria al nulla. Quel vetro mostra, visibile pian piano, appena l’occhio si abitua all’oscurità obbligata, una stanza abbandonata, che ha le sembianze di un esterno. Sul fondo un muro in legno, come un cancello, ma chiuso. Il pavimento ricoperto di pittura, pigmenti, olio, bitume e muffe… il fuori è rappresentato come un rifugio minuziosamente ricostruito attraverso stratificazioni di materiali. La messa in scena spiazzante per chi coglie la sua opera è un gesto ripetuto dall’artista, sotto forme diverse.
A Milano Gordon era tra gli artisti della collettiva The act of drinking a Coke by yourself is the lowest form of art, nel nuovo spazio curato da Zero… all’interno della Fonderia Battaglia. La porzione di spazio scelta dall’artista era significativa: una semplice stanza bianca illuminata da finestre. Ancora una volta un luogo interno, ma poco rassicurante perché abbandonato, di passaggio. Qui dentro una performer silenziosa interagiva col pubblico attraverso lo sguardo. Con quest’azione, keller 2001, Gordon raccontava il contesto con una presenza umana, attiva. In Secession 2000-2005 l’umano ha lasciato delle tracce, ma non c’è più. Come non c’era a New York, quando l’artista ha bloccato l’entrata della sua galleria, Chapter NY, con un’installazione. All’interno, in mostra, c’erano opere con dipinti interni di case. Un’ossessione ripetuta attraverso elementi sempre diversi, e spiazzanti.
Come al cinema, questa mostra non va spoilerata prima. Ma forse è troppo tardi.
Scritto da Rossella Farinotti