Stava appena passando la tensione da guerra fredda, il fenomeno dello spionaggio sfumava nella filmografia commerciale e nella letteratura di genere, quando Foucault ha coniato la metafora del Panoptycon, gettandoci collettivamente nell’ossessione del controllo. Oggi sappiamo per certo che i telefoni registrano arbitrariamente immagini e suoni dai nostri telefoni anche nei recessi più intimi della nostra vita privata, ma lo accettiamo entusiasti come una fatalità, lo scotto da pagare per poterci scambiare felici ore di insulsi messaggi vocali e selfie gratis.
Tradotto in cifre, la produzione mondiale di dati cresce del 61% all’anno, e si stima che l’ammontare complessivo raggiunga 175 zettabytes (o 175 mila miliardi di gigabytes) nel 2025, oltre il quintuplo dei dati prodotti nel 2018, con i quali sarà controllato il 75% della popolazione globale, quella connessa. Per non farsi sfuggire l’altro 25%, si moltiplicano anche i confini fisici: trent’anni fa, al crollo del muro di Berlino, esistevano al mondo 15 barriere di confine. Oggi sono 70.
Su tutto questo universo riflette la mostra HOMELAND, che prende avvio da Berlin Lights di Hermann Pitz: un’installazione composta da sette luci originali e funzionanti parte del muro di Berlino, e da una programmazione di video di Chantal Akerman, Yuri Ancarani, James Bridle, Simon Denny, Mohammad Eltayyeb, Harun Farocki, Michael Klier, Lydia Ourahmane, Jon Rafman, Hito Steyerl, Surveillance Camera Players, James T. Hong, Amalia Ulman, Xu Zhen, Andrea Zittel. Il calendario delle proiezioni è disponibile sul sito.
HOMELAND presenta anche un display a cura del CCA.
Scritto da Lucia Tozzi