Sul palco ha preso forma un uragano mutante di psichedelia ed heavy rock che paiono piombati direttamente dallo spazio. Ogni pezzo è un capolavoro d’ipnosi: sembra poter essere quello di prima, avviluppato in un motorik estenuante, poi d’improvviso trasfigurato in qualcosa di diverso, in forme mostruose che fanno da sfondo a innumerevoli crowd surfing e a una folla che recita ossessivamente i testi delle canzoni. A un certo punto Stu, il cantante, chiede di essere condotto fino “all’oceano” per fare un bagno: la folla sta al gioco, ce lo porta in palmo di mano, poi lo riporta sul palco, sempre in modalità crowd surfing, fradicio, in costume, mentre la band lo aspetta jammando – perché ovviamente per tutto quel tempo a nessuno degli altri sei musicisti è passato lontanamente per la testa di smettere di suonare. Già mi vedo da vecchia raccontare ai nipotini questa storia, con loro che dicono «Sì zia, ce l’hai già raccontata questa storia del miglior concerto rock’n’roll che hai visto in Italia quando eri giovane, la sappiamo a memoria!».
Che si tratti del migliore mai visto in gioventù non è possibile garantire a chi scrive (la memoria ormai vacilla), ma di certo tra i live più memorabili degli ultimi anni c’è quello dei King Gizzard & the Lizard Wizard sul palco del Beaches Brew di Marina di Ravenna. I sette australiani sono visti con sospetto da chi non regge bene la bulimia discografica e, posto che almeno la metà dei loro quindici dischi (in sette anni) merita davvero di essere ascoltata, dal vivo non c’è storia. Visionari, collaudatissimi, sfrenati, ironici, sempre stracarichi, praticamente degli alieni, i King Gizzard & the Lizard Wizard passano dalla psichedelia al metal, dal rock sci-fi al prog con incursioni weird folk con la padronanza di chi sta vivendo la sua settima vita da musicista.
Scritto da Chiara Colli