Se c’è una cosa che adoro del clubbing è sicuramente il fatto che tutto muta forma in continuazione, senza una ragione in particolare cambia e basta, non solo musicalmente parlando. Come se l’ecosistema del club si basasse sulla costante trasformazione di tutti gli elementi che lo compongono. Un esempio banale? Durante le serate la configurazione del gruppo di amici con cui si va è diversa già dopo mezz’ora. Qualcuno è sparito, starà bevendo qualcosa o è fuori a fumare. Capita anche di non trovare più nessuno e a quel punto sei tu a essere scomparso. Tutto solo a ballare o a far chiacchiere.
Tanta gente varia, con speranze e aspettative diverse per quella notte, che si muove e si contorce come pesci rossi in una boccia. E così ti senti vivo, immerso di continuo nella presenza degli altri, sei in mezzo a quel brulicare che ti ricorda: alla fine non siamo così diversi tra noi. Spesso le persone con cui fai conoscenza in fila al bagno o a fumare non le incontri più, ma se capita è una festa.
Non sai come andrà una serata, prima che cominci. I set stessi non seguono alcun canone o paradigma. Uno tra i più strani che abbia mai ascoltato è quello di Interstellar Funk, un figlio dell’underground olandese che gioca coi rumori e la discontinuità. Una sequenza tanto straniante da sembrare uno di quei momenti in cui ti svegli di soprassalto, dopo esserti addormentato sul treno, e non sai più dove sei. Ti guardi intorno, chiedi che ora è, capisci che manca molto alla destinazione e allora continui a ballare.
Scritto da Pier Iaquinta