kaufmann repetto è lieta di annunciare GROW, la quarta personale di Judith Hopf con la galleria. Nel suo nuovo progetto, l’artista presenta sculture e serigrafie, opere che rivalutano il nostro sistema di pensiero e che mettono in discussione il ruolo privilegiato dell’uomo nelle strutture gerarchiche dell’esistenza.
Con Phone Users 1, 2, 3 gli esseri umani compaiono sulla scena sotto forma di sculture a grandezza naturale realizzate in creta, una rappresentazione figurativa senza precedenti nella pratica dell’artista. Assemblati con frammenti modellati a mano, i contorni friabili dei corpi e dei lineamenti appaiono appena abbozzati. Catturate nell’isolamento silenzioso e immobile della loro materialità grezza ed effimera, le tre figure rappresentano delle persone che stringono un telefonino. I loro gesti evocano un’esperienza della nostra vita quotidiana che tutti conosciamo bene: sono infatti ritratte nel momento in cui ricevono, registrano o trasmettono dei segnali legati alla telecomunicazione. Ma questi “utenti telefonici” – che sollevino l’apparecchio in cerca di una migliore ricezione o che si pieghino goffamente sullo schermo per inviare un messaggio – sembrano in difficoltà, come se neppure loro sapessero cosa dovrebbero ricevere. Le loro espressioni trasmettono una sensazione di confusione: non riescono a credere che la loro connessione con il mondo non funzioni come avevano immaginato.
La preoccupazione per l’interrelazione fra esseri umani e tecnologia è un tema ricorrente nella produzione di Hopf: la ritroviamo per esempio in Laptop Men, una serie precedente di figure astratte composte da lamiere di metallo dalla forma geometrica, che sfoggiano volti da cartone animato. Anche in Phone Users è avvenuta una fusione completa fra corpo e dispositivo, eppure in questo caso si respira un’aria di resistenza, trasmessa dalla materialità grezza della creta, materiale vicino alla terra a livello tanto letterale quanto simbolico. La plasticità e la malleabilità della materia prima conservano il ricordo della modellazione manuale, poiché riproducono con estrema precisione ogni pressione esercitata dalle dita e dalle mani – un processo di scansione ante litteram che si contrappone alla dipendenza contemporanea dal digitale.
L’analisi critica delle ideologie dominanti emerge anche da un’altra serie di opere in mostra. Due enormi fili d’erba si innalzano negli spazi della galleria: dalle dimensioni monumentali (uno è alto 3,5 metri, l’altro 2,5), sono realizzati in acciaio pressato e rifiniti con una verniciatura a polvere verde. Il processo di produzione industriale e il sovradimensionamento conferiscono ai due oggetti scultorei una dimensione astratta. Grazie all’altezza imponente, i Blades of grass attirano la nostra attenzione su un esemplare botanico onnipresente ma spesso trascurato. L’erba, che cresce in abbondanza sul nostro pianeta da 55 milioni di anni, è senza dubbio tra le piante più diffuse, dato che si trova in quasi tutti gli ecosistemi e ha una straordinaria capacità di colonizzare e trasformare gli ambienti in modo duraturo. Grazie alla sua importanza per i mammiferi erbivori, nel corso del Neolitico l’erba assunse un ruolo fondamentale nella rivoluzione agricola. La deforestazione che creò i pascoli per il bestiame è stato uno dei primi interventi con cui l’uomo ha modificato l’ambiente naturale, seguito rapidamente dall’introduzione dei recinti, dalla comparsa della proprietà dei terreni, portando all’addomesticazione degli animali, alla raccolta delle risorse naturali e alla nascita dei “paesaggi culturali”. In tempi più recenti, l’erba coltivata è diventata una presenza costante nei luoghi di piacere dell’uomo moderno: la troviamo nei giardini delle ville rinascimentali e dei castelli barocchi, così come nel Jardin à l’anglais del Settecento e nei praticelli curati che decorano le case nei sobborghi della classe media nel Novecento.
Ma è chiaro che i Blades of grass dell’artista non sono disponibili per l’utilizzo umano. Le loro dimensioni li sottraggono al nostro controllo e noi, costretti a guardarli dal basso, non possiamo che rivedere la scala di valori di ciò che in genere consideriamo grande e importante. Una tematica affrontata anche nelle due serigrafie Endless Tree: alte 2,5 metri, mostrano i fusti di due alberi che sembrano crescere in modo perpetuo e incessante, ignorando con noncuranza i limiti imposti dalla cornice. Imperturbati dalle categorie umane, gli alberi e l’erba ribelli di Hopf ci spingono ad analizzare il ruolo occupato dalle piante nei sistemi di significato umani, sfidati di recente dal dibattito sull’intelligenza e sulla dignità dei vegetali, culminato nella proclamazione di una“carta dei diritti delle piante” firmata dal neurobiologo Stefano Mancuso. Questa svolta ontologica radicale è condivisa anche dalla tesi della “materialità vitale” messa a punto da Jane Bennett, teorica politica. Superando la dicotomia che contrappone gli animali umani/non umani alla materia inorganica, Bennett teorizza che ad accomunare tutte le entità sia un gioco di forze vivace ed energico: “Perché sostenere la vitalità della materia? Perché […] l’immagine della materia morta o profondamente strumentalizzata alimenta la tracotanza umana e le nostre fantasie di conquista e consumo che finiscono per distruggere la terra. E lo fa impedendoci di cogliere (vedere, udire, raccontare, sentire) una più ampia gamma di poteri non umani che circolano attorno e all’interno dei corpi umani”.*
In questo più ampio contesto, le nuove opere di Hopf ci invitano a sperimentare con un atteggiamento drasticamente diverso, che mette in dubbio il carattere eccezionale dell’essere umano e le categorie su cui esso si fonda. Blades of Grass ed Endless Trees – rappresentanti non soltanto della natura, ma pure della “materia” in senso più vasto – non sono affatto oggetti inerti, passivi o modesti. La loro crescita prodigiosa suggerisce la presenza di una vitalità insubordinata e risoluta, una vitalità che di certo surclassa l’indifesa dipendenza tecnologica degli indolenti e goffi “utenti telefonici”, che hanno chiaramente smarrito le coordinate di un mondo antropocentrico che ormai appartiene al passato. Per concludere con le parole di Bennett, solo superando la figura di unamateria intrinsecamente inanimata riusciremo a far avanzare “l’emergenza di modalità di produzione e consumo più ecologiche e sostenibili”.**
Judith Hopf (Karlsruhe, 1969) vive e lavora a Berlino. Le sue opere sono state esposte in tutto il mondo, in istituzioni come: SMK – National Gallery of Denmark, Copenaghen (2018); KW Institute for Contemporary Art, Berlino (2018); Hammer Museum, Los Angeles (2017); Museion, Bolzano (2016); Neue Galerie, Kassel (2015); PRAXES, Berlino (2014); Kunsthalle Lingen, Lingen (2013); Studio Voltaire, Londra (2013); Fondazione Morra Greco, Napoli (2013); Schirn Kunsthalle Frankfurt, Francoforte (2013); Malmø Konsthall, Malmø (2012); Grazer Kunstverein, Graz (2012); Badischer Kunstverein, Karlsruhe (2008); Portikus, Francoforte (2007); Secession, Vienna (2006); Caso Institute for Art and Design, Utrecht (2006). Ha partecipato a biennali e mostre collettive organizzate da istituzioni internazionali, tra cui: Lenbachhaus, Monaco (2018); Mudam, Lussemburgo (2017); La Biennale de Montréal (2016); 8th Liverpool Biennial, Liverpool (2014); Sculpture Center, New York (2014); Triennale for Video Art, Malines (2012); dOCUMENTA13, Kassel (2012); Kunsthalle Basel (2011); Kunsthall Oslo, Oslo (2010).
Judith Hopf è professoressa e vicerettrice del dipartimento di Belle Arti presso la Städelschule di Francoforte.
Scritto da La Redazione