Per chi conosce Gonzalo Borondo e la sua opera saprà di quella perenne fascinazione per il monumento che lo perseguita, che si infila in pressoché ogni installazione. Monumento, monumento è potenzialmente tutto quel che dimostra con prepotenza comunicativa la memoria, meglio: è quel che attestando l’una o talaltra memoria, prediligendo questa o quella, ne decreta la preminenza e allora traccia, modella e articola la struttura di eventi, personaggi e figure che prende il nome di Storia.

Diverse negli ultimi anni sono state le effusioni di avversità verso i monumenti. Diverse le figure rimesse in discussione. Diverse le statue trascinate a terra con cavi e corde, imbrattate di vernice rosa e rossa, diverse le giornate celebrative contestate, e non perché queste figure, questi nomi, esistano di per sé in quelle posizioni di rilievo, su quei piedistalli e sui quei plinti, ma poiché troppe volte la storia è raccontata per metà. Troppe volte la memoria è monca e selettiva, cosicché la storia ne risulti storta e storpiata – e troppo spesso secondo esigenze.

Ecco, Gonzalo Borondo abbatte monumenti. Li spezzetta, li giustappone, li ridicolizza, li sostituisce e a volte pure se li inventa. D’altronde la storia, come la memoria, è fatta di ricordi e l’eventualità che il ricordo sia falsato, che sia una rielaborazione consustanziale e continua, isomorfa, al presente è sempre da tenere in considerazione. La storia è insomma prima di essere “rassegna” arbitraria e totale di eventi, una questione critica.

Con Tempo Perso Borondo riprende il discorso della storia mancata, del tempo lasciato correre, quello che non ci si accorge che è passato, ed è passato senza lasciar traccia del suo transito.