Parlare con Jermay Micheal Gabriel è come aprire un libro di storia dimenticato, uno di quelli che sono caduti sotto il letto senza che ce accorgessimo: le storie che ci racconta non rimangono incagliate nel passato, ma parlano al tempo presente aprendo ferite che non si sono mai chiuse.
Nella sua personale Cose Bizzarre, Gabriel rielabora storie e immagini del nostro passato coloniale, ponendoci dinanzi alla voragine dell’amnesia. La mostra ci lascia sospesi tra vertigine e sconforto: parole come imperialismo, genocidio e memoria riecheggiano all’interno degli spazi di ArtNoble Gallery, in via Ponte di Legno, dando voce e corpo a vicende dimenticate.
«Possiamo parlare in tanti modi astratti di colonialismo. Personalmente, mi piace toccare l’argomento in termini più discorsivi e rilassati, lasciando che le cose emergano da sole. Ognuno di noi può rintracciare nella sua storia un legame più o meno diretto con la storia coloniale, come con il fascismo. Per fare un discorso costruttivo è necessario uscire dal trauma e parlare di posizionamento oggi.»
Ad accoglierci sulla soglia, tra spazio pubblico e privato, un lightbox con scritte LED e tre targhe in marmo di Carrara: via Dogali e via Adua sono strade che tutti abbiamo percorso almeno una volta, a Milano e in altre città italiane. Gabriel si sofferma sulla sofferenza celata dietro questi nomi, che ci richiamano solo pagine impolverate e anonime della nostra storia nazionale invece che corpi, vite interrotte e atrocità belliche. Sfidando il mito degli italiani brava gente, le opere di Gabriel si soffermano sulla storia coloniale italiana: una storia che pensiamo di conoscere, ma che è necessario riesumare al di sotto di una coltre di cenere e carbone. Sono personaggi, luoghi e fatti che emergono sfocati o che spesso non ci dicono nulla: sono nomi che riempiono un vuoto a cui non sappiamo dare una forma, perché il nostro passato coloniale è una vergogna che non viene raccontata né ricordata.
In Cose Bizzarre mettiamo in dubbio una narrazione istituzionale, incapsulata nel nostro archivio culturale attraverso l’ascolto attivo. Inginocchiati su un tappeto di carbone, respiriamo il profumo del tempo e della salvia bianca che pervadono gli spazi della galleria; con le mani e le unghie sporche di cenere apriamo i vecchi bauli delle nostre soffitte e cantine con le foto dei nonni in colonia, immortalati nel loro “meritato posto al sole” (Benito Mussolini, discorso del 2 ottobre 1935, Roma). Gabriel ci prende per mano, guidandoci davanti alla straniante e imponente presenza della violenza: come tra i banchi di scuola, veniamo accompagnati nella lettura e nell’interpretazione di storie che appaiono opache, decifrando indizi che non siamo ancora in grado di cogliere.
«Spesso i miei lavori vengono definiti violenti, ma come puoi parlare di qualcosa che è stato violento senza esprimerti attraverso la violenza? E soprattutto che cos’è la violenza? La violenza coloniale è davvero paragonabile alla violenza visiva delle mie opere?»
Le opere dell’artista, in particolare nella seconda sala della galleria, ci restituiscono i corpi della memoria, la loro composizione organica e materica: sono fotografie dimenticate in giardino, sotto le intemperie e ad asciugare al sole; sono dettagli che sopravvivono al mondo esterno, isolandosi entropicamente da tutto il resto. Di chi sono quei volti? Dove si trova quella strada? Chi si nasconde nelle grotte di Amba Aradam?
Riprendendo la tradizione coloniale europea delle wunderkammer, Jermay Michael Gabriel ci pone ironicamente dinanzi a oggetti affascinanti, brandelli di storia, racconti consegnatici dal mare attraversando il caldo Mediterraneo, direttamente dal Corno d’Africa. Storie in cui sono incisi i destini di Etiopia, Eritrea e Somalia.
1926 1936.
Quelle date scritte su un foglio bianco, tra la prima e la seconda sala della mostra, ci mettono davanti alla totale inconsapevolezza che è alla base dei nostri privilegi; quelle date cancellate in rosso ci restituiscono la violenza della nostra ingenuità e della nostra eredità. Quelle date evidenziano due diverse percezioni del tempo, due diversi calendari – quello italiano e quello etiope: quella correzione in rosso restituisce la violenza del predominio culturale e politico occidentale, di una visione univoca e normativa della storia.
E.A: «Guardo il tuo lavoro e sento il peso di una storia che è passato ma anche presente, di cui leggiamo oggi sui giornali e che ci rifiutiamo di affrontare. Ancora e soprattutto oggi siamo chiamati tutte e tutti a risponderne senza girarci dall’altra parte.»
J.M.G: «Citando James Baldwin: “Io sono ciò che il tempo, le circostanze, la storia, hanno fatto di me, sicuramente, ma io sono anche molto di più di quello. E così tutti noi” (James Baldwin, Notes of a Native Son, Penguin Classics, 2017). Non possiamo essere interamente responsabili del nostro passato, ma dobbiamo esserlo del nostro presente.»
Lavori come quello di Jermay Michael Gabriel sono oggi necessari non solo per affrontare una storia che non ci è mai stata insegnata, ma anche per poter guardare all’attualità uscendo dalla logica delle narrazioni mediatiche, per poterne davvero cogliere i meccanismi politici e le fabulazioni narrative.
Il profumo di salvia bianca mi si è incollato addosso, come una seconda pelle, avvolgendomi e riparandomi dai primi freddi di novembre. Il profumo di salvia bruciata mi accompagna fino a casa, davanti ai bauli impolverati della mia cantina.
Scritto da Eva Adduci