Ventitré anni appena compiuti e King Krule ha già: pubblicato un esordio che è piaciuto a tutti, da Beyoncé ai teppistelli cresciuti a hip hop e gentrificazione nel sobborgo a Sud Est di Londra in cui è nato; ricevuto l’incarico scomodo di “voce di una generazione”; rifiutato una collaborazione con Kanye West; fumato più bong di (quasi) tutti noi messi assieme; conquistato David Letterman e scritto le rime più surreali che troverete in un album blasonato tanto dal New York Times quanto dalle visualizzazioni su YouTube. A ventitré anni Archie Marshall pare che abbia già divorato quintali di jazz standards, consumato la propria voce fino a farla sembrare quella di un bluesman alcolizzato e capito che pure se sei un millennial di successo non è detto che devi sputtanarti tutto e subito con featuring discutibili, campagne pubblicitarie per qualche marchio di vestiti, singolacci tirati fuori a raffica e copertine di magazine hype. Se nel 2013, con 6 Feet Beneath the Moon, King Krule era già un enfant prodige misterioso e malinconico, oggi con The Ooz quello che sembra aver mandato davvero a farsi fottere è non solo il suo cervello (“Skunk and onion gravy, as my brain’s potato mash”, sbiascica in Dum Surfer), non solo ogni classificazione di genere – il disco, lungo oltre un’ora, è una poltiglia visionaria di jazz storto, hip hop oscuro, cantautorato malatissimo, digressioni punk alla Clash – ma anche ogni tentazione di cavalcare la fama, preferendovi sempre l’isolamento, le ispirazioni che non t’aspetti (un sassofonista e una cantante spagnoli sconosciuti), la periferia ai lustrini della città. Archie è (paradossalmente) troppo lucido per finire male come i rocker maledetti a 27 anni, ma ciò non toglie che vederlo stasera è una delle rare occasioni per ricordarci che, nel 2017, c’è ancora qualcuno in grado di ribaltare i connotati della “musica pop”.
Scritto da Chiara Colli