Era il 1968 quando Mario Merz, fautore di una nuova realtà e di nuova speranza, testimone di una guerra devastante e di una lunga liberazione che lo coinvolse in prima persona accanto ad altri giovanissimi partigiani, infuse nella sua opera quella stessa carica e linguaggio politico, sociale e culturale.
Sono gli anni in cui la sua arte è specchio della politica, della ricerca di un credo artistico lontano dalle altre correnti estetiche e artistiche. Inevitabile è il volgersi alle origini, all’arte come esperienza, alla forma organica la cui prospettiva sul tempo e sullo spazio è senza fine, circolare ed organico; da lì l’uso dei materiali poveri che sembrano far eco ai processi formali della natura stessa, così lontani dalla pratica artistica.
Con la creazione del primo igloo quello stesso anno Merz dichiara l’abbandono della bidimensionalità dell’arte, per far uscire la pittura dalla tela e liberarsi del concetto di rappresentazione.
L’arte come vita stessa: questo era il credo di tutto un gruppo di giovani italiani, di cui Merz fu esponente, accomunati dall’interesse per i materiali poveri e dalla volontà di ritornare alla naturalità come matrice essenziale. Un credo che a Celant piacque chiamare Arte Povera.
Le sculture, volte a evidenziare la proprio morfologia, diventano mezzi di comunicazione per vivere l’arte come esperienza comune.
Le forme privilegiate da Merz, spirali, igloo e tavoli rappresentano la volontà di un ritorno all’Umanesimo, di uno spazio accessibile a tutti che si può interpretare come lotta contro il nichilismo del Novecento.
A cinquant’anni da quell’anno memorabile, trenta igloo di grandi dimensioni e materiali differenti, provenienti da diverse collezioni internazionali e realizzati tra il 1968 e il 2003 si adagiano sul pavimento delle Navate dell’HangarBicocca.
Negli stessi spazi che hanno accolto la rivisitazione in chiave moderna degli ambienti di Lucio Fontana, a ottobre gli igloo di Merz creano un Eden terrestre, totalmente umano. Diametralmente opposti e complementari per la riflessione sulla dimensione spazio-temporale, i due maestri dell’arte italiana del dopoguerra si avvicendano qui in un percorso di grandi retrospettive.
Gli igloo, costituiti da semisfere autoportanti, sono architetture primarie e secondo Merz anche l’essenza dell’epoca moderna; ponendosi al centro della dialettica tra interno ed esterno, tra impeto e razionalità della forma, l’igloo rappresenta una casa, un rifugio temporaneo che permette di aprire alla libertà e all’interazione tra il significante degli oggetti e l’ambiente che li ospita. La forma organica rappresenta allo stesso tempo il mondo e la casa, una sorta di cupola al cui centro è l’uomo, come nelle chiese del Rinascimento.
Così come nella struttura interna dei singoli igloo anche nella disposizione di Vincente Todolì all’interno degli spazi dell’Hangar vige una precisissima e consapevole scelta: le opere si susseguono in un percorso cronologico in cui lo spettatore è invitato a muoversi liberamente.
Scritto da Chiara Di Leva