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A L’ARME! Festival

'Usare la dissonanza per creare significato': cosa abbiamo visto e sentito al festival berlinese

Scritto da Filippo Grieco il 12 settembre 2019

Pochi minuti prima dell’inizio dell’A L’ARME festival il cielo sopra Berlino si è fatto tempestoso. La serenità del tardo pomeriggio sembrava destinata a lasciare spazio facilmente all’oscura pigrizia della notte berlinese quando il vento ha cominciato a soffiare grigi nuvoloni sulla città, che nel giro di pochi minuti si sono trasformati in bufera. Passanti, pendolari, turisti e fannulloni di ogni genere si sono riparati nel primo anfratto disponibile: pensiline, portoni, verande, i più fortunati in qualche späti a bere una birra: era uno di quei momenti in cui l’unica opzione è l’attesa. O meglio: infradiciarsi o attendere. Curiosamente, è lo stesso aut-aut che si propone a un ascoltatore, in particolare in festival così trasversali come l’A L’arme e qualche altro in Europa. L’ascoltatore arrivato sin qui però il dubbio non se lo pone nemmeno, magari temporeggia un attimo per sopravvivere al temporale, si butta sul primo autobus per non dover affrontare il ponte sulla Spree alla mercé del vento, ma non appena poggia il piede nel territorio dell’A L’arme si affida all’apnea. Immergersi è l’unico modo per affrontare festival di questo genere, dove ci sono pochi concerti a sera, quasi mai in contemporanea, spaziando tra i generi, le epoche, le visioni, concedendo solo le brevi pause come spazio per prendere fiato (o birra).

Sin dalla nascita l’A L’ARME si apre con una serata “fuori sede”, dove con sede si intende lo straordinario spazio del Radialsystem che ha ospitato tutte e sette le edizioni sin qui. L’apertura fa pochi passi altrove, non più verso l’irregimentato Berghain, ma verso il terreno di un altro ex-club berlinese doc. Là dove sino a un decennio fa sorgeva il mitico Bar 25, oggi c’è il trasversale villaggio chiamato Holzmarkt25 ad accogliere il festival. Uno spazio multiforme in linea con la serata, che si apre con i colori ritmici di Greg Fox, passa dalle scanzonate Gurls per approdare alle mazzate di Anguish, il supergruppo formato da Dälek, Mats Gustaffson e Hans Joachim Irmler, il tutto cucito insieme dalla spettacolare selezione di vinili di Elena Wolay (Jazz ar Farligt). Una presentazione più chiara degli intenti del festival non era possibile. O forse sì, ma a parole.

Immergersi è l’unico modo per affrontare festival di questo genere

Una delle peculiarità (tale è per noi che ci siamo dimenticati le buone maniere) dell’A L’ARME è infatti la scelta di introdurre, talvolta cadenzare, ogni serata con degli interventi a voce dal palco. Interventi rigorosamente in tedesco, come sarebbe naturale eppure un po’ stupisce, tanto siamo abituati all’internazionalizzazione forzata dei festival, dove si parla in inglese anche quando nel pubblico non c’è nessuno proveniente da luoghi al di fuori del confine di provincia. Louis Rastig, ideatore e curatore del festival, ci tiene a spiegare costantemente le ragioni che portano a esplorare talvolta uno talvolta l’altro territorio musicale in programma. Sono come le istruzioni dagli altoparlanti a bordo di una nave che si infila nelle onde della bufera. Rappresentata facilmente da un programma in costante disequilibrio, talvolta in contraddizione. Dove il caleidoscopico esercizio di Practical Music (trio di impro totale olandese che apre letteralmente il programma al Radialsystem) è seguito dal vaudeville del leggendario Tristan Honsinger, in cui improvvisazione musicale e teatrale si mischiano senza preoccuparsi in alcun modo di trovare un senso. Schema che si ripete il venerdì sera, che comincia con la radicalità scarna di Matana Roberts e si chiude con la pop-band di Natalie Sandtorv.

Nel lungo testo con cui si presenta il festival, L’A L’ARME si propone di “usare la dissonanza per creare significato” e di offrire “una piattaforma per negoziare le posizioni radicali”. Un intento elevato ma spesso assolutamente riuscito, che sia attraverso l’enciclopedico set di DJ Fett, reclutato come “riserva” e capace di stregare i tiratardi con una selezione di 7″ da tutti gli angoli del globo, o l’incontro ipnotico e costruttivo tra il Lana Trio e JD Zazie (al terzo piano, con le finestre affacciate sul fiume al tramonto). E proprio lungo il fiume dovrebbe andare alla deriva la piattaforma dell’A L’ARME, fattasi forte nella serata conclusiva di energie in grado di spingere come propulsori, quando il free-jazz degli Irreversible Entanglements spalanca la porta al “post-tutto” degli Ex Eye, per chiudere il festival in un crescendo di dissonanza. I Golden Oriole fanno salire di una manciata di gradi la temperatura con un live che non si capisce sino in fondo se sia noise-rock o samba, i Jealousy Party fanno delle loro continue mutazioni il mulinello in grado di fare impazzire la navigazione, che sia verso l’orizzonte o verso un fragoroso schianto. Non è un caso che mentre l’A L’ARME si approccia alla sua ultima serata, il cielo che pochi giorni prima era opprimente come una bufera lascia spazio ad un arcobaleno. È un invito verso l’infinito.