Dal 24 ottobre al 24 novembre torna Foto/Industria, la prima Biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’Industria e del Lavoro, organizzata dalla Fondazione MAST e curata da Francesco Zanot. Dieci mostre in altrettante sedi del centro storico, che si affiancano alla già nota Anthropocene del MAST, che ruotano attorno al tema del costruire.
YOSUKE BANDAI – A CERTAIN COLLECTOR B
Museo Internazionale e Biblioteca della Musica – Strada Maggiore, 34
Yosuke Bandai è un artista multidisciplinare che utilizza la fotografia come principale linguaggio espressivo, associandola spesso con la scultura e il video. A Certain Collector B (2016) è un esempio perfetto di questo approccio libero e integrato. Tutto ha inizio con la raccolta di una serie di oggetti abbandonati per la strada. Pietre, frammenti di legno, pezzi di plastica, rifiuti, perfino resti di insetti e altri materiali inesorabilmente destinati a degradarsi o a finire nel cestino della spazzatura, costituiscono gli elementi di base per la realizzazione di una serie di fragili sculture. È un modo per salvare tutto ciò che appare inesorabilmente avviato alla sparizione, sottraendolo all’oblio con un estremo gesto di riciclaggio.
Ma non finisce qui, poiché il processo di recupero di Bandai prevede un secondo passaggio ancora più radicale. Anziché esporre direttamente queste composizioni polimateriche e multicolori, l’artista le riproduce con uno scanner e le presenta sotto forma di stampe fotografiche. In questo modo non potranno più estinguersi o scomparire, ma nemmeno deteriorarsi come inevitabilmente avviene nel mondo reale. Sono sottratte allo scorrere del tempo. Passano dall’universo sensibile a quello delle immagini. Da creature provvisorie, diventano improvvisamente immortali. L’utilizzo dello scanner al posto del più consueto obiettivo fotografico evidenzia e radicalizza questo principio: il risultato è una sorta di catalogo ordinato e razionale.
LISETTA CARMI – PORTO DI GENOVA
Oratorio di Santa Maria della Vita – Via Clavature, 8
Nel 1964, dopo appena quattro anni dalle sue prime fotografie, Lisetta Carmi realizza uno dei più significativi reportage del dopoguerra sul tema del lavoro. La sua indagine si sofferma sul porto di Genova e sul suo rapporto profondo, ma al tempo stesso contraddittorio, con la città. Rigidamente divisa in classi sociali che vivono in aree urbane ben delimitate, la città è intrisa di moralismo cattolico nei quartieri alti e di ortodossia comunista nei quartieri operai, senza spazio né fisico né mentale per il dialogo. Carmi intende mostrare alla città gli spazi chiusi, nascosti alla vista, ma soprattutto alla coscienza. Lo farà in maniera dirompente pochi anni più tardi con il lavoro sul ghetto dove vivono i travestiti, ma è proprio con l’indagine sul porto che prende forma il suo peculiare sguardo, volto a sfidare i perbenismi e le convenzioni senza alcuna retorica. Nell’universo maschile del lavoro operaio, Carmi porta rispetto e pudore.
DAVID CLAERBOUT – OLYMPIA
Palazzo Zambeccari/Spazio Carbonesi – Via De’ Carbonesi, 11
David Claerbout (1969, Kortrijk, Belgio) è uno degli artisti più innovativi e apprezzati nel campo delle immagini in movimento: la sua opera si pone al crocevia tra fotografia, cinema e tecnologia digitale.
Olympia è una ricostruzione digitale dello stadio Olimpico di Berlino, collocata in una dimensione spazio-temporale privata della presenza umana e consegnata ai cicli della natura. In accordo con la teoria del “valore delle rovine”, secondo cui il decadimento dell’edificio sarebbe pre-incorporato nel suo stesso progetto, l’opera evoca una dinamica di creazione-dissoluzione determinata dall’inesorabile forza della natura. Benché fisicamente rimosso, l’elemento umano è presente attraverso la sincronicità dell’opera con il nostro ciclo vitale.
Olympia può essere considerato un tentativo di mettere in relazione la durata biologica con la durata immaginaria, laddove la prima corrisponde all’arco di vita dell’essere umano e la seconda coincide con il tempo ideologico: l’illusione di “esserci” per mille anni. L’attesa è una componente significativa per il visitatore di qualsiasi mostra, ma nel caso di Olympia l’esperienza dell’opera consiste nell’effetto meditativo che scaturisce dal vivere il tempo reale in un ambiente che è del tutto irreale, sperimentando il tempo individuale in relazione a un volume temporale estremamente maggiore.
MATTHIEU GAFSOU – H+
Pinacoteca Nazionale/Palazzo Pepoli Campogrande – Via Castiglione, 7
Il transumanesimo è un movimento culturale che mira ad aumentare le capacità del corpo umano attraverso l’uso della scienza e della tecnologia. Questo concetto è già presente in banali dispositivi di uso quotidiano, come i pacemaker o gli smartphone. Ma rimanda anche a fantasie che postulano l’immortalità o addirittura prevedono l’abbandono del corpo biologico in favore della macchina. Dal mito dei cyborg a quello della chimera, il transumanesimo evoca l’immagine di una nuova religione.
La serie H+ ci parla del presente: cosa esiste davvero, cosa possiamo vedere, dove possiamo vederlo. Dalla Svizzera alla Russia, passando per la Francia, la Germania e la Repubblica Ceca, l’artista ha familiarizzato con persone – biohackers sepolti nei garage come gli scienziati dei più importanti laboratori –, oggetti e idee legati al movimento. Sin dall’inizio della sua ricerca, nel 2014, ha capito che il problema non sarebbe stato reperire informazioni o argomenti, ma catalogarli, stabilire delle priorità e tracciare una mappa leggibile del movimento transumanista.
H+ è l’insieme di vari frammenti che formano una rete di significati, una griglia più che una narrazione. A livello implicito, la natura non narrativa del proprio lavoro permette a Gafsou di formulare un’idea di fotografia documentaria che non si configura come verità immutabile ma come espressione di una visione. Le sue sono restituzioni radicali, che danno conto della violenza latente insita nelle trasformazioni tecnologiche già in atto.
LUIGI GHIRRI – PROSPETTIVE INDUSTRIALI
Palazzo Bentivoglio Sotterranei – Via del Borgo San Pietro, 1
Come la maggioranza dei colleghi, Luigi Ghirri affianca al lavoro di ricerca una serie di incarichi commerciali con aziende, industrie e altri committenti. Lo fa tuttavia in maniera molto particolare, introducendo nelle sue produzioni una quota molto evidente della propria poetica, cosicché è possibile riconoscere nelle immagini una serie di motivi ricorrenti del suo più noto universo di ricerca. Pure se corrette e puntuali, le fotografie professionali di Ghirri non sono mai un trionfo di tecnica, né pura celebrazione del prodotto, ma hanno sempre un riconoscibile tono sobrio e pacato. Mancano i luccichii di un universo costruito appositamente per il momento della ripresa, mentre domina una chiara impressione di normalità. Ciò evidente nell quattro commissioni selezionate per questa mostra, che costituiscono i principali incarichi svolti dal fotografo nel corso della sua carriera: Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi costituiscono preziose occasioni per sperimentare, mettersi alla prova e introdurre in modo quasi subliminale un discorso sul mondo troppo urgente per interrompersi lungo un percorso del pensiero sempre coerente e approfondito.
DELIO JASSE – ARQUIVO URBANO
Fondazione del Monte di Bologna E Ravenna Palazzo Paltroni – Via delle Donzelle, 2
Delio Jasse ha dedicato i suoi ultimi lavori allo studio e alla rappresentazione della capitale della sua nazione d’origine: Luanda. Dopo vent’anni di guerra civile, l’Angola ha vissuto un periodo di forte rilancio economico e sociale dalla fine del secolo scorso, fino al collasso avvenuto nel 2014 in seguito al crollo del prezzo del petrolio, che costituisce insieme alle risorse minerarie la più importante fonte di sussistenza dell’intero paese. La fotografia è il principale strumento d’indagine dell’artista africano, che la utilizza come uno strumento fluido e malleabile, parte di un processo più ampio. Jasse, in pratica, non lavora con la fotografia, ma sulla fotografia. Le tre serie presentate in questa occasione, Sem Valor (2019), Arquivo Urbano (2019) e Darkroom (2013), sono tutte basate su immagini preesistenti che preleva dal suo stesso archivio e modifica o rilegge in vario modo.
ANDRÉ KERTÉSZ – TIRES / VISCOSE
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna Casa Saraceni – Via Luigi Carlo Farini, 15
Nel 1936, assunto dall’agenzia Keystone, André Kertész lascia Parigi per stabilirsi negli Stati Uniti. L’arrivo a New York è difficile. A parte qualche immagine pubblicata su “Vogue” e “Harper’s Bazaar”, il fotografo stenta a farsi un nome tra committenti dalle esigenze molto lontane dalla sua pluriennale esperienza parigina. Nel 1943, mentre in Europa infuria la guerra, ottiene la nazionalità americana, cosa che gli consente di viaggiare liberamente all’interno degli Stati Uniti e di riprendere appieno l’attività fotografica. Uno dei primi incarichi, poi pubblicato dalla rivista “Fortune” nel 1944, lo porta ad Akron, in Ohio, dove fotografa gli stabilimenti Firestone. Il reportage illustra l’impegno dell’azienda nella produzione militare ma anche i benefici che potrebbe ricavarne l’economia americana nel dopoguerra. Oltre alla stampa di pneumatici e alla vulcanizzazione delle scialuppe di sbarco, Kertész fotografa a colori il paesaggio industriale della città di Akron e i campioni di caucciù utilizzati per le lavorazioni.
Nel giugno del 1944 si reca a Marcus Hook, in Pennsylvania, per fotografare la fabbrica e il centro di ricerca dell’American Viscose Corporation. Eseguirà moltissimi scatti su richiesta di Charles W. Rice, responsabile della pubblicità. La campagna fotografica è organizzata nell’ambito dei “War plants”, commesse fotografiche finalizzate a documentare lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Le immagini delle linee di produzione, degli uffici tecnici e del paesaggio industriale della zona sono destinate a illustrare un catalogo di presentazione del luogo pubblicato nel 1945. Che si trovi a immortalare donne davanti alle macchine per la filatura, il direttore dello stabilimento alla sua scrivania o operai impegnati nella manutenzione degli impianti, Kertész cura la luce e la composizione delle immagini con estrema attenzione. Fedele allo stile che contraddistingue tutto il suo lavoro, tratta i dettagli di un filo o una mano su una macchina come se fossero piccoli still life.
Dopo questi due reportage, Kertész abbandona la fotografia industriale per un contratto con le edizioni Condé Nast, che gli chiedono di fotografare case e appartamenti per la rivista “House & Garden” fino al 1962. (Matthieu Rivallin)
ARMIN LINKE – PROSPECTING OCEAN
Biblioteca Universitaria di Bologna – Via Zamboni, 33/35
Prospecting Ocean segna il culmine di tre anni di ricerche. Fra il 2016 e il 2018 Armin Linke ha visitato alcuni fra i più importanti laboratori di scienze marine al mondo, ha intervistato esperti di diritto marittimo presso la International Seabed Authority di Kingston, in Giamaica, ha assistito alla conferenza internazionale sul futuro degli oceani organizzata nel 2017 presso le Nazioni Unite a New York e ha parlato con gruppi di ambientalisti in Papua Nuova Guinea. L’opera svela luoghi e situazioni solitamente invisibili, gettando uno sguardo su centri decisionali di norma inaccessibili al pubblico. In un momento critico per l’equilibrio ecologico degli oceani, Prospecting Ocean ricostruisce la fitta rete di collegamenti tecnocratici fra grande industria, scienza, politica ed economia che rende possibile la nuova frontiera degli scavi oceanici.
ALBERT RENGER-PATZSCH – PAESAGGI DELLA RUHR
Pinacoteca Nazionale/Sala degli Incamminati – Via delle Belle Arti, 6
Albert Renger-Patzsch è considerato uno dei principali esponenti della Nuova Oggettività. Partendo, nel 1925, da immagini di oggetti e scatti pubblicitari realizzati per l’industria editoriale e altri committenti commerciali, è diventato un maestro dello stile fotografico oggettivo, segnando come nessun altro l’estetica della fotografia degli anni venti e trenta.
A partire dal 1927, e in particolare con il trasferimento a Essen nel 1929, Renger-Patzsch comincia a fotografare la regione della Ruhr. In seguito alla rapida trasformazione da ambiente rurale a cuore dell’industria siderurgica e carbonifera, negli anni venti la Ruhr appare come un paesaggio urbano policentrico composto da villaggi aggregati disordinatamente, senza la minima pianificazione urbanistica. Renger-Patzsch riprende vedute suburbane e scavi minerari, cortili di grandi edifici popolari e di case di periferia, appezzamenti di terreno e impianti industriali. L’emotività misurata e la chiarezza compositiva sono parte integrante della grammatica oggettiva con cui è declinato nelle sue fotografie il tema della Ruhr; la sua opera è riuscita a conferire a questo paesaggio intrinsecamente eterogeneo una forma precisa. Con le sue vedute industriali Renger-Patzsch ha dato vita a una serie fotografica che è diventata un punto di riferimento nel genere del paesaggio degli anni venti e trenta e al tempo stesso ha assegnato alle immagini un valore iconico destinato a durare ben oltre il tempo in cui sono state realizzate.
STEPHANIE SYJUCO – SPECTRAL CITY
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna/Project room – Via Don Minzoni, 14
Nel 1906 Harry, Herbert, Joseph e Earle Miles, passati alla storia come Miles Brothers, celebri pionieri del cinema muto, girano uno dei loro film più importanti. Si intitola A Trip Down Market Street e non è altro che la fedele registrazione del percorso compiuto dal cable car attraverso il centro di San Francisco, partendo dalla 8th Street per arrivare fino all’Embarcadero da cui partono i traghetti che attraversano la baia. La macchina da presa è montata sulla parte frontale del cable car, dando agli spettatori l’impressione di trovarsi a bordo e respirare l’atmosfera di frontiera della città californiana per l’intera durata del tragitto. Si vedono persone, carrozze, automobili e i principali edifici e monumenti della città, tutti distrutti o gravemente danneggiati poco dopo dal violentissimo terremoto di quell’anno e dal conseguente incendio. Girato il 14 aprile, questo film precede infatti soltanto di quattro giorni il più tragico evento della storia di San Francisco, facendone allo stesso tempo un prezioso documento e l’oscuro presagio di una catastrofe imminente.
Stephanie Syjuco parte da questa ambiguità per la realizzazione di Spectral City. Qui ripercorre esattamente l’itinerario del cable car dei Miles Brothers, ricostruendolo però attraverso il software di Google Earth, che utilizza immagini satellitari, fotografie aeree e dati topografici per ottenere un modello tridimensionale del pianeta. Dopo un processo di registrazione che avviene semplicemente attraverso lo schermo del suo computer, Syjuco interviene minimamente in post-produzione, cosicché nel film rimangono tutti gli errori, le distorsioni e le fratture generate dal programma. Il fatto che lungo il nuovo panorama urbano non appaia alcuna persona, poi, è dovuto all’algoritmo che fa funzionare Google Earth, progettato per escludere e cancellare le persone così come qualsiasi altro elemento di disturbo. Il risultato è un secondo cataclisma. Oltre un secolo dopo il terremoto del 1906, San Francisco appare colpita da un’ulteriore calamità. Brandelli di vegetazione e altri oggetti fluttuano in aria come esplosi da una violenta deflagrazione, mentre in città risuona l’eco di un generale abbandono. Prima si era tratto di una catastrofe naturale, mentre queste sembrano le conseguenze di una serie di azioni del tutto umane.