Era da tempo che non mi concedevo un inizio settimana così, in sordina.
Dopo l’assalto ai supermercati, i grandi reclami, gli scontri istituzionali e i titoloni di giornale, ho preso la palla al balzo e ho inviato una mail ai pazienti per avvisarli della decisione di chiudere lo studio per l’intera settimana; anche gli psicologi a volte si stancano.
Dopo alcune chiamate dovute con i più assidui, domenica sera ho spento portatile e smartphone, per poi riporli in un cassetto dello sgabuzzino.
Mi sono svegliato alle sette al fianco di Giorgio, che a liceo chiuso si è potuto permettere di dormire un paio d’ore in più del solito, invece di svegliarsi trafilato per correre all’artistico a fare lezione.
Per qualche minuto ho guardato il suo stomaco salire e scendere nell’assecondare il respiro, la gabbia toracica che faceva su e giù al ritmo di un sonno dolce e inaspettato, soprattutto tenendo conto della tensione che aveva caratterizzato l’umore di entrambi, almeno nel pomeriggio del giorno prima.
Per me è un giorno senza fretta, questo.
Voglio credere che Milano abbia spento i motori per assecondare forme di collaborazione e rapporto che prevedono una dimensione più umana.
La grande macchina per una volta si ferma, e chi è abbastanza lucido può trarne giovamento, respirare.
Mi tiro su dal letto con piacere, pensando alla giornata sgombra che mi attende.
Al posto della doccia, un bagno di mezz’ora.
Musica rilassante e un libro al fianco della vasca.
Stamattina riesco a tenere a freno l’impulso senza senso del dare un ordine ad ogni cosa, assecondare un equilibrio precario che ha bisogno di un aggiustamento senza soluzione di continuità.
Se stiamo crollando, in quanto uomini e donne e civiltà, beh, ben venga la caduta.
Potremo rialzarci insieme e, per una volta, forse, avremo tempo per parlarci senza fronzoli, con i toni fraterni di chi ha condiviso l’esperienza della perdita irreversibile.
Quant’è sana questa cosa di percepirsi come esseri finiti, invece che macchinari instancabili a perenne disposizione di una crescita senza limite.
Una collettività che vive di superficie e negazione della fine, di colpo si trova a considerare la possibilità della propria scomparsa.
Della conclusione di un percorso.
Di un cambiamento irreversibile.
Della rottura dello status quo, della routine, delle buone maniere di facciata.
Ben vengano le resse nei supermercati dove ci si spintona a vicenda per accaparrarsi un pacco di pasta che verrà usato, forse, tra un paio di settimane, quando i plotoni di supermercati che assediano la città saranno stati riforniti almeno una decina di volte.
Come si sentiranno queste persone quando l’indomani gli scaffali torneranno pieni?
Come giustificheranno la propria cattiveria sugli altri, il razzismo, la paranoia immotivata?
Come elaboreranno tutto questo?
Come passeranno dalla negazione alla rabbia, dal patteggiamento alla depressione?
Come arriveranno, infine, ad accettare la propria condizione di sostanziale frustrazione e infelicità?
In che modo gestiranno il cumulo di polvere che gli ha fatto saltare in aria il tappeto?
Giorgio dorme, e Milano è una metropoli che continua a stare in silenzio.
Sono le dieci di mattina e, per un po’, attraverso il quartiere a piedi, piano, fermandomi di tanto in tanto agli angoli delle strade per osservare i comportamenti dei passanti.
Mascherine, distanza, paura.
Il linguaggio fisico delle persone sta già cambiando.
È tutto cominciato da soli tre giorni, e sono in molti a guardare gli altri come corpi portatori di altri corpi, piuttosto che persone.
Milano, 24 febbraio 2020