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Benvenuti a Ortica

Il quartiere inaspettato tra arte pubblica, trap e documentari

quartiere Ortica

Scritto da Giada Biaggi il 3 luglio 2020
Aggiornato il 6 luglio 2020

Uno dei murales realizzati a Ortica grazie all'associazione O.R.M.E.

Foto di Carmen Colombo

 

La chiusura dello stabilimento delle Tre Marie in via San Faustino me la immagino avvenuta sotto lo sguardo del fantasma di Enzo Jannacci, il medico-chansonnier, nato e cresciuto proprio all’Ortiga. L’Ortica si chiama così perché un tempo c’erano gli orti (e non le ortiche come molti mal pensano), poi dopo la guerra sono arrivate le fabbriche; oggi – oltre il Cavalcavia Buccari – ci vive parte della nuova classe creativa milanese. C’è un orto condiviso che sorge tra le due case di riposo del quartiere – bella metafora esistenziale – la cui visione, chissà, avrà ispirato versi trap ritmati tra i 100 e i 180 bpm.

L’Ortica si chiama così perché un tempo c’erano gli orti (e non le ortiche come molti mal pensano), poi dopo la guerra sono arrivate le fabbriche; oggi – oltre il Cavalcavia Buccari – ci vive parte della nuova classe creativa milanese

Quando si arriva all’Ortica da Lambrate, spingendosi quindi più a sud, si vedono una serie di palazzoni in costruzione, malvisti dagli storici abitanti del quartiere che ravvisano in questi nuovi, a loro detta, mostri architettonici le cause dirette di un’inevitabile congestione di traffico che paralizzerà quello che più che un quartiere vuole ancora raccontarsi come un piccolo borgo. Se percorriamo via Trentacoste, veniamo accolti dall’equivalente meneghino del Monte Rushmore (avete presente quello con le facce dei presidenti americani?) mixato all’estetica dell’East Side Gallery di Berlino – sul ponte si legge la scritta: “Liberi dentro l’abbraccio dell’Ortica”. Le mani di questo slancio emotivo immaginario sono i visi dipinti sul Muro della Giustizia; da un lato troviamo i combattenti politici lessicalizzati in murales con il codice cromatico del giallo-verde: Giorgio Ambrosoli, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Emilio Alessandrini, Mauro Brutto, Walter Tobagi, Tina Anselmi, Lea Garofalo; sul lato speculare invece i personaggi della cultura e dello spettacolo che si sono legati in un qualche modo alla storia del luogo: Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Dario Fo, Ivan della Mea, Giorgio Gaber, Giorgio Strehler, Nanni Svampa. Qui i colori si scaldano. Rossi, Arancioni, gialli, marroni.

Tutte le opere di arte pubblica dell’Ortica sono realizzate dal collettivo Orticanoodles e promosse dall’associazione Or.Me (Ortica Memoria) – un museo estrinsecamente immersivo, un’arte espansa e in costante espansione, proprio come l’universo. Il Muro dei lavoratori, il Muro delle donne che han fatto grande il ‘900, il Muro del partigiano e del vescovo, il Muro della cooperazione, il Muro degli antifascisti e dei deportati politici, il Murale dello sport, il Muro delle migrazioni e molti altri
compongono il più grande e coerente esempio di arte pubblica permanente di Milano.

“Un tempo all’Ortica si nasceva, si cresceva, si lavorava e si moriva”; a parlarci così è il “Dima”, il gestore de Il Circolino dell’Ortica. “A Milano un tempo si faceva politica qui, oggi la gente preferisce fare gli aperitivi”. Quel tanto di retorica che ti fa sentire sempre un po’ a casa. Non ci sono più tante cose all’Ortica: la sede del PCI, le Tre Marie, la Innocenti, la Trattoria del Gatto Nero, I Tri Basei dove si faceva il cabaret vecchio stile.

Balera dell’Ortica – foto di Carmen Colombo
foto di Carmen Colombo
Ce ne sono però altre. Dal maggio 1958, 10 anni esatti prima di quel maggio che sconvolse Parigi, anche Milano ebbe la sua rivoluzione (gastronomica) con l’apertura della rinomata Pasticceria Migliavacca, tra le più rinomate di Milano, in via Giovanni Antonio Amadeo 39. La pasticceria Migliavacca esiste ancora con la sua resilienza glicemica. Ci sono poi la Sala del Vino e la Balera dell’Ortica che domina “La Piazzetta”, due esempi di business giovani e a guida femminile che si fanno portavoce di un vintage attualizzato. In Balera si può giocare a bocce, ballare lo swing, fare un karaoke cantando Britney Spears, comprare una giacca anni Settanta al Garage Market delle Gemelle, mangiare del formaggio fritto e se siete fortunati fare due chiacchere con uno dei suoi clienti habitué: Maurizio Cattelan.

Ci sono le macchine che vanno veloce, ma c’è una certa poesia di sottofondo

Come molti milanesi che abitavano tra le porte, anch’io nelle estati passate andavo all’Ortica principalmente per la Balera, finché un giorno non ho conosciuto un ragazzo che mi ha fatto attraversare il ponte – non siamo a Venezia, quindi si chiama Cavalcavia Buccari e sì, ci sono le macchine che vanno veloce, ma c’è una certa poesia di sottofondo. Se fossimo stati in un film diretto da Federico Moccia ci sarebbe stato un limone sul cavalcavia con una fotografia in controluce, in realtà io avevo dato di stomaco, per usare un eufemismo democristiano, in seguito a una serata un po’ impegnativa. La mattina dopo mi sono svegliata in Via Tucidide, in uno dei loft ricavati dagli ex-stabilimenti della Pozzi Ginori. Oggi lì ci vivono importanti producer di trap come Rkomi, ci ha anche soggiornato la Dark Polo Gang, ma ci sono anche scrittori, giornalisti, scultori, pittori, designer, una parte della produzione del colosso MyTheresa, una sede della Feltrinelli, videomaker, fotografi, il cantante delle Vibrazioni, il prossimo Calcutta; mi sono subito innamorata di quell’isola creativa fuori e dentro la città.

foto di Carmen Colombo

Tucidide mi è sempre sembrato un osservatorio privilegiato su quello che ti fa stare a Milano ma te ne fa anche allontanare, per questo poi ho deciso di trasferirmi qui in pianta stabile. Fuori dal complesso c’è una birreria e un posto per fare la colazione bio, non ci sono negozi ma ci sono sempre persone con sacconi di showroom piene di vestiti, si vede la ferrovia sopraelevata come a Görlitzer Park, per andare dell’altra parte del complesso devi attraversare un corridoio pieno di libri e, anche se non ci sono più le fabbriche, l’anima politica dell’Ortica per me è tutta qui. Gramsci non si legge più, ma Marx ti sorride dal muro.

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