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Benvenuti a Porta Venezia

Quartiere orgoglioso, arcobaleno, etnico e creativo

quartiere Porta-Venezia

Scritto da Martina Di Iorio & Piergiorgio Caserini il 31 agosto 2020
Aggiornato il 14 giugno 2021

Foto di Carmen Colombo

 

Porta Venezia sembra quasi una signora dai fianchi larghi, il naso all’insù, ben vestita e comodamente seduta su un salotto di velluto mentre sorseggia un negroni sbagliato, leggendo qualche rivista indipendente. Una signora un po’ particolare però, che di giorno mostra il suo lato snob, sicuramente per bene, mentre di notte mette gli occhiali da sole e toglie le mutande insinuandosi silenziosa dentro locali di cui si sussurra il nome, che donano a questo quartiere il suo lato più affascinate e malizioso.

Porta Venezia quartiere kinky, queer, pansessuale, multietnico, orgoglioso, e allo stesso tempo quartiere borghese, aristocratico e artistocratico, acculturato e per bene. Dai Bastioni si sviluppa a raggio verso tutte le direzioni. Tagliato idealmente da Corso Buenos Aires, quasi fosse lo spartiacque delle sue diverse anime, Porta Venezia arriva a ovest fino a Centrale – la sua parte più street e multiculturale – ingloba a est le vie residenziali, alberate e chic di Morgagni e – scendendo – Kramer e Goldoni, per poi lanciarsi a sud fino alla fermata Palestro, oltre il parco Indro Montanelli, abbracciando il quartiere liberty di Milano. Ma la verità è che Porta Venezia occupa posti che non rispecchiano i confini distrettuali, ma sale: si prende Buenos Aires, si prende il Lazzaretto e il Rainbow District, si prende Benedetto Marcello da un lato e gli amici delle bocce dall’altro, al limite di via Plinio. Porta Venezia è soprattutto dove non dovrebbe essere, perché Porta Venezia è sfrontata, inopportuna e bramosa: vuole tutto, e se lo prende. Ma la cosa che importa è che fa piacere a tutti.

Porta Venezia quartiere kinky, queer, pansessuale, multietnico, orgoglioso, e allo stesso tempo quartiere borghese, aristocratico, acculturato e per bene

Porta Venezia è il quartiere dell’amore, e non perché c’è il Love dell’Abeba, simbolo delle notti underground e queer nel distretto LGBTQIA+, ma perché sappiamo per certo che è solo grazie a questi locali che possiamo raccontarvi le storie ideali per capire questo quartiere. Come quelle dei venerdì sera, per cui Porta Venezia è tappa fissa delle ragazze e dei ragazzi dei licei di provincia, che arrivano qui col passante perché è il posto ideale per esprimere e sperimentare la propria sessualità senza sguardi indiscreti o bigotti. Le ragazze di Porta Venezia sono anche loro, perché le ragazze di Porta Venezia sono un concetto, con piani inclinati e pieghe, e bisogna sapere come usarlo e al limite con quale garnment. Basta guardare la MYSS capitanare le ragazze, quando salutano i passanti proprio da queste vie, dal punto nevralgico del Milano Pride, tra il Rainbow e il Peacock – dove si beve bene e con poco –, tra il Red, il Lecco Milano e il Mono. Perché poi la Milano arcobaleno non vive solo nel quadrilatero tra via Lecco, Panfilo Castaldi e Tadino. Si respira a ogni angolo, e riesce a unire in un colpo solo le favolose di tutta Milano. E nonostante abbiano abbandonato ogni riferimento alle buste al Love e alle schiacciate di barella al Picchio, continuano a essere uno degli esperimenti sociali più riusciti e fortunati in zona, il simbolo più queer-pop di zona, ma forse d’Italia.

E insomma, lo stesso quartiere del Pride è anche quello della multiculturalità, lo si capisce a colpo d’occhio dalla schiera di locali dove si fuma narghilè, dove si mangia lo zighinì e i sambuus, nei piccoli market dove si compra la salsa all’habanero e quella chili. Porta Venezia è un quartiere che parla la lingua del corno d’Africa, che sventola la bandiera di Eritrea, Etiopia e Somalia, qualcuno mettendo il tutto sotto un grande cappello che è quello di comunità habesha, che poi significa “abissina”. Pensate a quella pasta che si prese gli insulti, e voltiamo pagina.

foto di Carmen Colombo
foto di Carmen Colombo

Perché Porta Venezia è anche quartiere “modello Milano”: brandizzato, istituzionalizzato, con un abitante medio e frequente che risponde un po’ allo stereotipo del nuovo milanese che parla di start-up, progetti, follow up, ecologico e vegano. E infatti è anche il quartiere più vegan-friendly della città, come ci ha detto Tadzio, lo Chef Vegan dell’hardcore-punk. Ne dà una riprova via Melzo, che piano piano sta diventando nuovo centro foodificato che alla storia del Bar Picchio – baluardo di veracità e identità di quartiere – affianca i nuovi giganti locali del food & beverage come il The Botanical Club ed Egalitè, per buona parte della stessa proprietà di Kanpai e Rost, sempre sulla stessa via.

Porta Venezia quartiere creativo, fatto di giovani artisti (ma soprattutto meno giovani, visto i prezzi della zona) insediati qui, di caffè simbolo per peregrinaggi di designer e architetti come il Bar Basso, anche se girovagando per il Picchio o il Rainbow non è difficile incontrare stilisti, musicisti e drag-influencer come Marco Rambaldi o Giuseppe Della Monica, i Tropea e le loro dosi di cringina o David Blank, Stephani Glitter o Santissima Vicky. Sarà anche per questo che qui sono gli spazi sociali a mescolarsi con l’arte, l’editoria e il fashion, come Spazio Maiocchi, headquarter di Slam Jam, Carhartt Wip (i due fondatori), e Kaleidoscope, o libreria-galleria-SPAZIO e l’Antigone. Poi c’è la lista dell’artistocrazia di qualità, da Raffaella Cortese ai Giò Marconi fino a Martina Simeti e Cabinet.

foto di Carmen Colombo

Insomma, avete capito che a Porta Venezia si può affibbiare tutto e niente, al massimo si può dire che è sincretico. È un quartiere dove lo spirito snob sussurra malizie alla sera, attraversando suoni e sapori delle grandi comunità eritree somale ed etiopi al passo da passerella delle drag più in voga di sempre. Ma poi ci sono anche le Madonne col Bambino che piangono alla Chiesa russa-Ortodossa di San Nicola – che è anche aperta alla liturgia eritrea –, c’è il monastero, c’è la chiesa cristiana di Santa Francesca Romana in cui ancora la liturgia è in latino, c’è un’architettura eclettica che comincia dal neoclassico, passa dal liberty e dalle linee severe del modernismo fino a Giò Ponti e Vico Magistretti.

E poi ci sono i Giardini. Lì ci sono mondi che si incontrano, per cominciare dalle palestre che ormai hanno preso fissa dimora all’aperto, tra le fronde del parco assieme alle decine di statue maschie di una storia etero-cis-patriarcale che ammiccano ai passanti, ai runners e agli sportivi. C’è il Museo di Storia Naturale che si trova esattamente dove deve stare, nel vecchio zoo comunale, dove si sognava di liberare il leone per vedere l’effetto che fa, ma dove c’erano anche elefanti, pinguini, tigri e scimmie appassionate dello spazio profondo. Quelle che una volta scapparono al grande Planetario Ulrico Hoepli, il teatro-cinema delle stelle: l’unico posto, a Milano, dove ancora si può ancora guardare per intero una volta stellata e conoscere i nomi e le storie degli astri che illuminano le notti soltanto qui.

Non bisogna scomodare di certo Freud per capire come qui – ancora senza fatica – venga portato avanti il discorso della pacifica convivenza in un corpo solo di situazioni e stili di vita differenti

Trasversale, eclettico per natura e aspirazione, un po’ fighetto e sicuramente benestante, Porta Venezia mostra a tutti il suo essere quartiere dalle diverse personalità. Non bisogna scomodare di certo Freud per capire come qui – ancora senza fatica – venga portato avanti il discorso della pacifica convivenza in un corpo solo di situazioni e stili di vita differenti. Tra Bulldog francesi dal nome Lucrezia portati a spasso con il collare di Off-White, calzettoni di CGDS tirati fino al polpaccio, walk-in di free chessboard in giro per le vie e nei locali veraci dei ragazzi di Blitz at Six, e le schiere di ragazzini che ballano sotto la stazione metro, Porta Venezia ci sembra tanto vasta da poter contenere una città per intero.

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2020-09-10