Una costante creazione e proposta di immagini, un bombardamento di fotografie a colori e in bianco e nero, un carosello che ci passa davanti agli occhi, amplificando e coinvolgendo anche gli altri sensi. Quello che si delinea alla Biennale Teatro 2023, terza edizione della direzione Ricci/Forte, non è un teatro di parola, narrativo, ma una ruota di spettacoli che scardinano le leggi, i confini, le norme dello stare in scena e provano a rispondere in un altro modo all’eterna domanda: cos’è oggi il teatro? Di quale vocabolario necessita? Forse più che contrastare questo mondo sempre più visual bisognerebbe accoglierlo e la direzione della Biennale diventa quindi quella di portare, visivamente, la pratica teatrale a qualcosa di più diretto da un lato, come solo una foto può fare e, allo stesso tempo, poetico e inafferrabile.
Un’immagine mi torna in mente ripensando a questa Biennale Teatro, ed è il palco del Teatro alle Tese cosparso, a terra, di sale bianco in occasione dello spettacolo Naturae di Armando Punzo, Leone d’Oro di questa edizione. Il pubblico, in doppia fila su tre lati del parallelepipedo del palco, è accecato dal biancore delle luci riflesse, in cui si muove Punzo con una palla rossa in mano che lo fa sembrare un burattinaio che tira le fila di tutti i suoi personaggi, ossia: la Compagnia della Fortezza. Gli attori sfilano con abiti fiabeschi e incantati tra parole poetiche e una musica minimalista lavora per addizione fino all’esplosione finale in una danza della vita. Perché questo è lo spettacolo, un eterno vorticare a tempo di valzer che supera i limiti di altezza, peso e fantasia creando immagini che si formano e disfano in continua trasformazione. «Qui non vedo confini, non è un mondo fuori dal mondo, ci vado a sognare sapendo di sognare» recita la voce fuori campo, e noi con loro sogniamo e seguiamo quest’esplosione di colori.
un atto liberatorio che vorremmo non finisse mai.
Anche gli FC Bergman sfidano i limiti dell’essere umano, fisici e mentali, nel loro spettacolo Het Land Nod, in scena a Marghera, in un enorme capannone allestito a teatro. Fuori dalla sala Rubens del Museo Reale di Belle Arti di Anversa si rovescia un temporale estivo, dentro suona Summertime e si susseguono scene surreali. Noi spettatori osserviamo una sala dove i quadri vengono rubati, i controllori distratti e rassegnati lasciano che visitatori disparati trattino il museo come se fosse casa, parco, toilette, dormitorio e molto altro. Le scene si susseguono e tra il comico e il tragico siamo trasportati in un film di Godard dove, come in Band à part, i protagonisti corrono nel Louvre – qui sala Rubens – in un atto liberatorio che vorremmo non finisse mai. Immagini (anche in questo caso) che si sovrappongono come fotografie di un album da sfogliare, appaiono sul palco: la carta dei tarocchi dell’appeso, la Morte di Marat, una famosa scena di cadute di Pina Bausch, l’eterno rincorrersi di Willy il coyote e Beep Beep, con la differenza che qui qualcosa esplode. La porta del museo è disintegrata per poter rubare i quadri e rimane solo una luce che mostra le impronte dei dipinti mancanti e la desolazione di un’arte che non c’è più. Nuovamente è confermata l’idea che questa Biennale si nutre di performance che non usano le parole, ma corpi, video e suoni per, alla fine, raccontare storie.
Questo, infatti, avviene anche in LA PLAZA, del El Conde de Torrefiel, che si apre con un palco ricoperto di fiori, candele e la frase «Quanto tempo posso provare piacere osservando una stessa immagine?». Sul fondale è proiettato un testo che narra la storia di uno spettacolo della durata di un anno, al suo ultimo giorno di rappresentazione. Uno spettatore ideale assiste alla performance e poi racconta, attraverso un flusso di coscienza, il suo ritorno a casa e le sue azioni. Inizia e finisce allo stesso modo, con il sipario che si chiude e nessuna parola pronunciata, ma una scritta infinita letta dagli spettatori e accorpata a scene passanti sul palco: un mercato musulmano, un museo, un obitorio, persone senza volto entrano ed escono dalle quinte per essere solo passeggere nelle vite di chi le osserva.
Il culmine di questa poetica dell’immagine arriva però con Anima di Noémie Goudal e Maëlle Poésy, per vederlo bisogna arrivare a Mestre nel Parco Bissuola, dove un grande palco è allestito con tre enormi schermi, come a raffigurare un trittico tipico dell’arte sacra del Medioevo. Immagini di palme che prendono fuoco si sovrappongono a rocce e ghiacciai che si sciolgono, in un’eterna trasformazione, dove c’è sempre qualcos’altro a prendere il posto di quello che c’era prima. Tutto, in questo caso, è metateatrale: le proiezioni stesse vengono costruite con pannelli stampati e ciò che sembra reale è invece una carta da parati proiettata che, alla fine, brucia…e cosa c’è dietro? Altra carta da parati e dietro ancora…altra carta e così via; in una sovrapposizione di strati, tutti filmati, che mostrano solo alla fine la struttura, finzionale, di un palcoscenico. Un’unica azione scenica, spettacolare, avviene verso la fine della performance, il pannello centrale si arrotola verso l’alto, mostrando l’ossatura metallica di un edificio brutalista, una carcassa in penombra. Chloé Moglia, performer, si arrampica sull’impalcatura e lentamente si appende in aria, sospesa, sfidando le leggi della gravità, del peso e, con leggerezza, compone una poesia di movimenti in contrasto con le immagini ai lati che continuano a trasformarsi.
È questo di cui, a mio parere, abbiamo bisogno oggi, di qualcosa che mostri il possibile, anche catastrofico ma senza giudizio, di musica incessante, di sfidare, come eterni Ulisse, le leggi della natura, di sentirsi invincibili e allo stesso tempo impotenti. Un’altra linea si dispiega con i prossimi due spettacoli ed è quella che indaga dall’interno l’essere umano, cercando non più di trasgredire a leggi esterne ma «un’avventura di pensiero in persistente stato di interrogazione» (come disse A. Punzo durante il discorso di premiazione), per cercare risposte dentro sé stessi.
Più intimi, infatti, sono gli spettacoli Milk del Khashabi Ensemble e Versuch über das Sterben di Boris Nikitin (sorta di prologo del suo altro spettacolo Hamlet, sempre in scena durante il Festival) che investigano due concetti diversi di perdita. Il primo quello di una madre che perde il figlio, il secondo quella del figlio che perde il padre. Milk, spettacolo palestinese, è allievo di quel famoso Tanztheater di Pina Bausch che attraverso la ripetizione di un movimento ricrea il rito e, senza parole e senza voce, spiega i sentimenti indicibili che si provano nella perdita. In contrapposizione di linguaggio risulta invece Versuch, solo parole e testo (quasi una novità per questa Biennale) recitate da Nikitin stesso, seduto su una sedia a leggere un copione che foglio dopo foglio lascia cadere sul palco spoglio.
raccontarsi è un atto di coraggio.
In questa vulnerabilità – come sottolinea Nikitin: vulner/ability – dove ogni cosa mai detta diventa la prima volta, dove rompere il silenzio diventa un coming-out, dove raccontarsi è un atto di coraggio, col buio sul palco, si chiude questa Biennale Teatro 2023, lasciando nello spettatore una gran voglia di tornare a teatro. Perché questo rito collettivo e rivoluzionario, nell’era dell’attenzione relegata a 10 secondi, sta riconquistando, nell’intimità di uno scambio, quella valenza e importanza sociale che solo un rituale può avere.