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Bulimia da streaming: basta con l’intrattenimento culturale

Molto meglio restare vigili e attivi che obnubilare la mente

Scritto da Salvatore Papa e Lucia Tozzi il 12 marzo 2020
Aggiornato il 17 marzo 2020

Foto di Luca Mezzano

Da oggi in tutta Italia saranno chiusi cinema, teatri, concerti, musei. Una scelta necessaria e dolorosa. Ma la cultura può arrivare nelle case. Chiedo alle tv di programmare musica, teatro, cinema, arte e a tutti gli operatori culturali di usare al massimo i loro social e siti“. Così il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, twittava l’8 marzo scorso. Parole alle quali sono seguiti freneticamente diversi inviti simili dai Dipartimenti cultura cittadini e regionali ai quali in molti stanno rispondendo in queste ore portando sul web spettacoli e letture in streaming, cataloghi, archivi, visite virtuali e chi più ne ha più ne metta.

Ma a che cosa può servire questa frenetica quanto fallimentare ricerca di format, di guide virtuali, di consigli, di rappresentazioni noiosissime in sharing? A fare finta di essere contemporanei, di sapere usare la tecnologia? A stabilire una connessione con quelli che dovrebbero essere i visitatori e gli spettatori, tipo un cordone ombelicale? La visita virtuale di una sala degli Uffizi o il Festival letterario totalmente digitale Decameron: una storia ci salverà condotto da Michela Murgia hanno scarsissime possibilità di appassionare turisti e festivalieri, per non parlare di una narrazione di Lella Costa o una performance di Saturnino tra i plastici in una Triennale vuota (ciclo anch’esso intitolato al Decameron), che infatti hanno fatto poche decine di visualizzazioni.

A che cosa può servire questa frenetica quanto fallimentare ricerca di format, di guide virtuali, di consigli, di rappresentazioni noiosissime in sharing?

Se poi lo scopo è intrattenere chi è angosciato dall’isolamento, peggio ancora: ci riescono meglio il porno, la televisione o i videogiochi, se vogliamo essere triviali, ma parlando invece di cultura vera sono molto più adatti i libri della propria libreria, la musica vecchia e nuova, i film e le serie disponibili in ogni formato e generosamente messi a disposizione gratis o scontati da cineteche, biblioteche, cinema d’essai; senza parlare di tutto quello che l’immenso archivio del web offre già autonomamente da sempre o del massacro al quale ci stanno sottoponendo i suggerimenti di esperti, celebrità, influencer di ogni genere e grado, talmente tanti che che la gente scappa urlando con le orecchie tappate appena sente qualcosa come “5 libri da legg…”. Come dice Mark Fisher, la sovrastimolazione cyberspaziale a cui siamo sottoposti non sgomina la noia, «quanto piuttosto la “nega”, dando l’impressione di distruggerla per conservarla sotto forma di una nuova sintesi, mettendola insieme alla seduzione. Siamo annoiati anche quando siamo preda della seduzione» (Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. K-Punk-1, Minimum Fax 2020).

Da un punto di vista leggermente diverso anche Tiziano Bonini affronta la questione in un post: «è bello che musei e istituzioni culturali facciano a gara a rendere disponibili i loro cataloghi e le loro opere in streaming (e mi chiedo allora come mai non lo abbiano fatto finora), ma si dà per scontato che, avendo più tempo perché rinchiusi in casa, l’attività migliore da fare sia quella di prestare attenzione, performare il nostro ruolo di audience, a contenuti culturali. Cioè, davvero pensiamo che, quando non lavoriamo, allora bisogna indossare le vesti dei consumatori (di streaming poi, con tutto l’impatto ambientale che ne consegue)?

Davvero pensiamo che, quando non lavoriamo, allora bisogna indossare le vesti dei consumatori?

Il punto è che la maggior parte delle persone in questo momento è probabilmente appassionata a un solo genere di notizie: quelle legate al Coronavirus. E fa bene, perché la comunicazione ondeggia pericolosamente tra le opposte strategie di allarmisti e sdrammatizzatori, mentre dalla reale consistenza dei fatti e dalle scelte politiche dipende moltissimo del futuro individuale e collettivo. In un quadro simile, molto meglio restare vigili e attivi che obnubilare la mente con sottoprodotti culturali.

D’altra parte lo stesso presupposto che se #restiamoacasa abbiamo un sacco di tempo libero è un’enorme cantonata. Non tutti restano senza niente da fare. Chi ha famiglia si becca un lavoro di cura mostruoso, moltiplicato per mille – cucinare svariate volte al giorno e intrattenere i figli isolati già spezza la schiena, anche a chi piace moltissimo fare entrambe le cose. Ma poi c’è anche il telelavoro, una vera e propria mazzata in fronte, a cui si aggiungono, sempre per chi ha figli, le lezioni scolastiche in sharing – sollecitate, che dico, pretese da genitori ansiosi per le prove Invalsi anche in seconda elementare – con conseguente contesa del computer.

Ancora una volta, quindi, come una sceneggiatura che si ripete a ogni crisi, la pillola liberale dell’“opportunità” arriva in soccorso di chi si abbandona alle preoccupazioni. Da un lato partite iva, lavoratori a chiamata, precari della cultura, lavoratori in nero del turismo potranno sfruttare il tempo libero impostogli dalla crisi per visitare tutte le mostre virtuali, segnarsi i consigli dei critici, guardare le prove d’orchestra in streaming in attesa dello sfratto; dall’altro chi continua a lavorare 12 ore al giorno in smart working o in fabbrica potrà sfruttare il weekend per stare finalmente davanti al computer col pupo che nel frattempo spacca tutto e godersi in comode pantofole una caterva di cataloghi museali eccezionalmente accessibili in pdf.
Un’opportunità presa al volo anche da direttori, curatori, assessori capaci di far passare un canale Youtube come una rivoluzione e bravissimi a trasformare un’opportunità nella solita presa per il culo.

Che almeno tutto questo serva a chiarirci che nessuno schermo potrà mai sostituire i nostri occhi.