È passato già parecchio dall’inizio della pandemia in Italia e qualcosa avremmo dovuto impararla. Tipo come funziona a grandi linee il contagio dei virus, quali sono i difetti e i limiti del sistema su cui toccherebbe intervenire e, tra le tante altre cose, quant’è triste vivere in una città senza socialità.
Stando a quello che ci dicono gli esperti, però, nemmeno il vaccino decreterà la fine dell’incubo, o meglio: inizieremo a essere meno tesi, sebbene ci vorranno ancora un paio d’anni per tornare alla normalità. Ma dopo tre anni, cosa significherà “normalità”?
La dimostrazione che tutto è già cambiato – forse in peggio – ce l’abbiamo sotto gli occhi, in un certo senso regna dentro di noi, ma se volessimo comunque cercarne i segni basterebbe sfogliare i quotidiani degli ultimi mesi.
Prendiamo la cosiddetta “movida“. Ci ricordiamo cos’era prima? Quell’orribile termine che un tempo veniva utilizzato per indicare una peculiare forma di divertimento a base di alcol e folla in zone/strade sviluppatasi ad hoc con la compiacenza delle amministrazioni comunali per favorire il commercio, finire sulle guide turistiche e contenere allo stesso tempo determinati problemi, la movida, oggi indica semplicemente due o più capannelli di persone con età compresa tra i 16 e i 40 anni circa, ovvero “giovani”.
Ecco, la movida così com’era l’abbiamo già dimenticata e se un tempo era considerata da molti una risorsa con qualche effetto collaterale tollerabile, oggi è – secondo gli stessi – la causa di tutti i mali responsabile della diffusione incontrollata dei contagi. Evidentemente ci sono dati incontrovertibili che non ci è concesso avere, ma ci tocca fidarci.
Ma c’è di più: a Bologna oggi movida vuol dire anche studenti, in particolare studenti fuorisede (magari meridionali).
Parlava chiaro la classifica 2020 del Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle città italiane: Bologna è il posto dove si vive meglio, ma “non brilla per Sicurezza e gestione della giustizia (106esima): è nella parte bassa della graduatoria nazionale per denunce di furti, estorsioni, frodi, violenze sessuali, comune denominatore di molte città universitarie con un’alta presenza di fuorisede”. Nonostante l’assenza totale di dati che confermino la credibilità scientifica di tale affermazione, ciò che c’è di vero è la relazione storica tra migranti e percezione dell’insicurezza.
Da quello che si legge oggi, è infatti bastato il ritorno delle lezioni in presenza al 50% a riportare in città i fuorisede e – conseguenza esplicita – la movida in zona universitaria e al Pratello.
Insomma, viene il dubbio che la questione non riguardi più soltanto l’emergenza sanitaria, ma qualcosa di più antico e profondamente radicato che oggi finalmente si ha l’occasione di contrastare con metodi più giustificabili. E, quindi, se non è bastato transennare Piazza San Francesco, Aldrovandi e Piazza Verdi, si chiudano anche via Zamboni e Piazza Scaravilli e si militarizzi l’intera zona. Si faccia insomma delle piazze territori di frontiera e, se proprio bisogna accoglierli, si distribuiscano i fuorisede per quote tra i comuni dell’Appennino come si era proposto. Si scherza, ma mica tanto.
Eppure era stato proprio il Comune a pochi mesi dal lockdown di marzo a correre ai ripari dopo anni di laissez-faire per riportare in città quegli stessi studenti sfrattati dai turisti, proponendo denaro e agevolazioni fiscali a quelli che avevano trasformato i propri appartamenti in airbnb: inabissatosi il progetto della città turistica, bisognava tenere a galla quantomeno quella studentesca. Salvo poi scoprire che questi non si accontentano né di avere una singola sgarrupata a 450 euro né di pagare le tasse universitarie per non frequentare l’Università, pretendono anche di stare all’aria aperta.
È vero, le regole valgono per tutti e gli assembramenti senza mascherine sono potenzialmente rischiosi, ma se con questo virus ci dobbiamo convivere, quali soluzioni per il futuro – che non siano solo militaresche – vogliamo proporre a chi viene a studiare a Bologna? Davvero le transenne? Non potrebbe invece essere questo un momento buono per un ripensamento dell’offerta culturale e uscire dal paradigma puramente commerciale della vecchia movida? Puntare su una città policentrica, tutta da vivere, dove si può stare all’aperto in sicurezza anche durante una pandemia aprendo nuove piazze, piuttosto che chiuderle o costruirci palazzoni, trovando lo spazio necessario per le persone.
Con un nuovo sindaco in arrivo, proviamo a discutere di questo.