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Dopo JAZZMI 2026: il podio di ZERO

Cosa ci è piaciuto di questa ultima edizione.

Scritto da Raffaele Paria e Filippo Cauz il 21 novembre 2025

Da dieci anni, Jazzmi trasforma Milano in un luogo migliore in cui vivere. E per noi – noi che qui scriviamo, piccolo sottoinsieme di tutti i noi che ascoltiamo – è una pacchia. Ce l’ha fatta ancora una volta questo autunno, sparpagliando per la città più di trecento artisti e artiste e oltre 40’000 partecipanti, che messi tutti assieme fanno almeno 80’600 orecchie: una disordinata armata di amore per la musica.

Ci è piaciuto così tanto che abbiamo deciso di continuare a scriverne, anche se Jazzmi è già finito e ora ci toccano una decina di mesi da aspettare per il prossimo. Fra i vari appuntamenti a cui abbiamo preso parte e da cui ci siamo fatti pervadere da varie emozioni, abbiamo deciso quindi di stilare il podio dei nostri concerti preferiti di questa edizione. In attesa di rivederci a Jazzmi 2026.

AMARO FREITAS – Triennale, 02/11

L’ultimo disco di Amaro Freitas lo avevo trovato talmente ricco, complesso, stratificato, che tutta sta semplicità non me l’aspettavo. Invece a Jazzmi arriva da solo e sul palco c’è un pianoforte soltanto, un’essenzialità che mi fa quasi paura. Invece succede che Freitas fa di quel piano una canoa con cui lanciarsi lungo il Rio delle Amazzoni e ci tira fuori un ecosistema di suoni che se fosse uno scienziato gli conferirebbero seduta stante il (credo inesistente) nobel per la biologia. Nel fare tutto ciò – e qui sta il bello – si diverte come un matto: ride, parla, fischietta, contagiando tutto il pubblico di una grigia domenica milanese. Non si direbbe, ma certe volte la ricetta per la felicità è molto più semplice del previsto.

 

ABDULLAH IBRAHIMTRIO – Triennale, 08/11 

Un concerto intimo, sussurrato, per l’anziano maestro sudafricano, al piano, con accompagnamento di contrabbasso/violoncello e flauto traverso: un trio classico che evolve verso schiarite jazz e accenni di musica tradizionale africana. Giratosi verso il pubblico, il maestro ha cantato a fine concerto un gospel della sua terra, chiedendo ai presenti di seguirlo. Un commiato molto toccante.

 

ARTCHIPEL ORCHESTRA Ft. MICHAEL MOORE – Triennale, 09/11

Per motivi logistici ed economici (far dormire venti persone per una notte a Milano oggi costa come lo stipendio di una famiglia di ceto medio), non capita più di vedere dal vivo un’orchestra jazz. Non capita più a meno che non si passi da queste parti, perché la fortuna vuole che a Milano un’orchestra ci sia e che, anno dopo anno, sia sempre meglio. Con la sua potenza di fuoco da esercito dell’immaginario, l’Artchipel si è insediata ormai in nuovi territori della creatività, ed è bello che sia un festival che porta Milano nel suo nome a dare spazio a una così luccicante perla locale (nemmeno rara, che di jazz validissimo da queste parti ce n’è parecchio e merita amore e sostegno). Quando poi l’Artchipel Orchestra decolla in territori quasi mitologici come quelli della leggendaria avventura avanguardista nederlandese dell’ICP, il risultato è indimenticabile. Un suono talmente vivo da rimanere ancora nelle orecchie, a settimane di distanza.