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Il futuro di ieri: Navigli Cyberpunk

Il glitch dei Navigli che parlò la lingua del cyber e del punk

quartiere Navigli

Scritto da Piergiorgio Caserini il 16 giugno 2021
Aggiornato il 12 luglio 2021

Immagine dall'Archivio Primo Moroni

Come scrisse più o meno anche Sterling nella prefazione dell’antologia di fantascienza Mirror Shades, il Cyberpunk è stato una backdoor per scardinare il presente. Una Simsti, una Stimulate Simulation che ha aperto una breccia verso un cambio epocale dove il reale si sdoppiava, la realtà era multipla e stratificata, digitale e reale si blurravano l’un con l’altro, e il punk diventava cyber nel tentativo di sabotare i meccanismi di un capitale depravato, crudele, di sfuggire dalle reti del controllo o quantomeno imparare a vederle dietro a quegli occhialetti a specchio, come dice Philopat nel suo I Pirati dei Navigli, che inevitabilmente ci riportano a quel capolavoro-B di Essi Vivono, del Carpenter, dove John Nada, con degli occhialetti proprio del cazzo, brutti davvero, comincia a intravedere il reale dietro le apparenze. Gli occhialetti, le protesi ottiche, le cheratoplastiche del futuro: filtri che ottengono la trasparenza, rivelando le linee delle subdole tecniche del controllo, le stesse linee che Burroughs vedeva insinuarsi tra le onde televisive, nei glitch di una pubblicità, linee che stanno anche dietro questo pezzo e ti inducono a leggere, a scrollare, a inseguire affannosamente i tag e controllare gli hashtag, le paroline d’ordine commerciale che costituiscono la reale natura di un contenuto web. La proiezione commerciale del tuo io digitale. Per andare al sodo, l’altrove del cyberpunk in Italia è cominciato qui, sulle acquette glitchate dei Navigli o dietro a un filtro IG-2020.

Seconda solo all’Inghilterra per la nascita e la fotta-lotta del cyberpunk ci siamo noi. Non noi di Zero, sia chiaro, ma: Milano, Navigli, 1987.

Non pensate, intanto, che vi stiamo facendo la pappardella sul cyberpunk giusto perché sono uscite raccolte, articoli, film e videogiochi negli ultimi tempi. No, qua mastichiamo la merda e le delizie, e ricordiamo bene quando solo qualche anno fa, chiedendo «ué, ma l’hai letto il Neuromante?», solitamente ricevevamo un sodo-ironico «No, è lungo». Non ce ne capacitavamo: eppure citavano Fisher senza ben sapere che la sua tesi di dottorato aveva proprio a soggetto la flatline gibsoniana, con lo spazializzazione delle figure del romanzo gotico; era il ‘99 amici di Zero, l’Uomo Tigre era un bebè mascherato di soli tre anni. Quindi, vi faremo da backdoor. Vi diremo quel bla-bla assordante sul cyberpunk non è male, è buono: il pop ogni tanto fa bene perché porta a livelli generalizzabili, folk, immaginari necessari. E che seconda solo all’Inghilterra per la nascita e la fotta-lotta del cyberpunk ci siamo noi. Non noi di Zero, sia chiaro, ma: Milano, Navigli, 1987.

I Pirati dei Navigli – Immagine dall’Archivio Primo Moroni

Sappiamo bene che alcuni di voi non sanno di che cazzo stiamo parlando. Lo sappiamo, ed è per questo che andremo per gradi: didattici, lenti e inesorabili proprio come un subdolo algoritmo, l’immateriale siliceo, che vi lede pian piano il lobo frontale giocando con la plasticità del vostro cervello, iniettandovi microdosi d’endorfina condite d’informazione che mai vorreste conservare, come diceva il vecchio sciamano Burroughs impegnato in cut-up stregoneschi, quando scovava in continuazione nei disturbi radiotelevisivi la droga del controllo, il virus del linguaggio d’ordine, decretando la fine della realtà, perché di realtà non c’è n’è se non quella dell’imposizione, dell’ordine, del potere. Se vi state domandando perché proprio in Italia il cyberpunk abbia avuto questa fortuna, paese a cui tendenzialmente piace vestire un certo provincialismo e pure un poco tecnofobico, che se esce il 5G non esita a chiamarlo complotto – in linea col virus burroughsiano –, che i vaccini iniettano microchip per renderci cyborg radiocomandati a distanza o fritti dalla potenza frequenziale del Wi-Fi, insomma, ci siete. Lo vedete, il cyberpunk? Ma questi sono solo strascichi, questa è la letteratura che ha conquistato la realtà. Sti cazzi il 2077.

Ma una e una sola è l’espressione sintetica, silicea e psichedelica del cyberpunk italiano: Decoder, una delle più celebri riviste underground tra gli ’80 e i ‘90, che fece della zona dei Navigli il centro della controcultura meneghina – e italiana. Una breve storia, per essere sintetici e diretti, è quella che vede un gruppo di giovani attorniarsi a Primo Moroni, fondatore della libreria Calusca (ora al COX18, assieme a tutto il materiale della controcultura raccolto e prodotto da Primo). E un punto qua ci vuole.

La Calusca al COX18 – Immagine dall’Archivio Primo Moroni

Primo Moroni era una figura di spicco, magnetica e centrale, per tutti i gruppi non organizzati, i “cani sciolti” insomma, che portavano diversi nomi quali punk, anarchici anarco-comunisti, comunisti libertari, movimento psichedelico. Diciamo che la formazione marxista di Primo, ben radicata nei Grundrisse, poco tollerava quei movimenti che non apportavano mai nulla di nuovo, quelli che si limitavano a reiterare forme di lotta, resistenza e organizzazione che non si discostavano di un ghello da ciò che era stato. Un buon decennio di militanza politica aveva portato a diversi tentativi di mettere in piedi dei coordinamenti tra librerie, editori indipendenti, riviste, con l’intento di trovare la linea di fuga per sfuggire alle politiche maggioritarie. Un’idea fondamentale, tutta moderna, era quella di Primo: fare rete. E tutto questo comincia in Calusca, che divenne negli anni il punto di riferimento per movimenti politici, centri sociali, della controcultura punk fino al meltdown di quest’ultima con la cultura hacker e i primi gruppi italiani ed europei. Mi auguro che tutti voi sappiate di che cosa parliamo quando diciamo che Topolino Hackerino e l’Uomo di Ferro sono le basi archeologiche della pirateria informatica in Italia.

Autentici punk muniti di computer pronti a disfare l’informatizzazione del capitale.

Che dire, quando qualcuno di quei “cani sciolti” ebbe l’idea di Decoder, è in parte da lì che si mosse. Facciamo dei nomi, tra i tanti, che qui ci vogliono davvero: Marco Philopat, Ermanno “Gomma” Gualtieri, Raf “Valvola” Scelsi, le femministe di Cromosoma X, Giacomo Spazio, che rifiutavano «il nichilismo suicida di una certa ideologia della “vecchia era”, rivitalizzando l’ironia come arma d’offesa, sentendosi gioiosamente “cyborg in lotta”». Vi è chiaro, no, cosa fosse il cyberpunk in Italia? Autentici punk muniti di computer pronti a disfare l’informatizzazione del capitale. Non per niente è in Italia che il cyberpunk ha più presa come lotta politica che come genere letterario. Io non so voi, ma quando leggiamo queste righe ci sentiamo bene. Perché siamo nel 2021, l’anno primo, pieno, di una pandemia che in Blade Runners, romanzetto di Burroughs, veniva presentata tra i riders-che-consegnano-eroina e da una medical-care-apocalypse. Il futuro era ieri, amici. Non oggi. Non so se l’avete capito. Tra corporazioni multinazionali che diventato staterelli autonomi e paranoidi – consiglio di lettura: il vecchio Nick Land – e la rete come fenomeno di disruption. Insomma, citiamo ancora Decoder e con il grande Hakim Bey ci rendiamo conto che l’avanguardia, per essere tale, mangia la merda e pure gli piace. Capite? Ed è evidente che la merda che si mangiava allora è la stessa merda che oggi mangiamo un po’ tutti, e siamo unanimemente d’accordo anche su questo, dal momento che in fondo «siamo come tanti Frankenstein composti da membra umane ed elementi posticci creati dalla tecnologia».

Che dire, l’interesse sul cyberpunk qui in casa nostra non era né l’interesse nella fiction in sé – che era anzi pure poco considerata, almeno quella prodotta in Italia, per buone ragioni diremo – e nemmeno quel furore dell’accelerazione che punta alla distopia o all’utopia, ma piuttosto la ricerca di uno strumento plausibile per non abbandonarsi alle retoriche progressiste della nascente tecnologia pervasiva, e per non abbandonare la critica serrata al capitale che accomunava la controcultura di quegli anni.

Vogliamo salutarvi con un’ultima citazione, un richiamo.

Amici di Zero: liberate le vostre lingue usatele per amare, non per leccare il culo ai vostri padroni.