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Il sonno dell’arte contemporanea da Andy Warhol a Marina Abramovič

Ebbene sì, la decima musa si chiama Orfeo

Scritto da Giada Biaggi il 17 luglio 2020

The Abramovic Method, Padiglione D'Arte Contemporanea, Milano 2012

Secondo un certo senso comune il dormire sarebbe la negazione di ogni pratica; artistica inclusa – veicolando un’idea di passività, in contrasto ad ogni paradigma del fare. In realtà non è proprio così.  Lo sapeva bene Andy Warhol che nel 1964 iniziò a girare i così detti anti-film; il primo di questi fu Sleep in cui l’artista riprese l’amico John Giorno mentre per l’appunto dormiva. Il minutaggio ammonta a cinque ore di sonno – i medici avrebbero avuto qualcosa da ridire; ma i critici ravvisarono al tempo in Warhol uno dei più grandi innovatori dell’immagine in movimento. Inoltre, è innegabile che guardare qualcuno che amiamo dormire sia uno dei grandi piaceri estetici della vita. E Andy, da grande esteta qual era, lo sapeva bene.

 

Sleep (1964), Andy Warhol

L’esplorazione dell’orizzonte del sonno attraverso le arti visive è quanto di più attivo ci sia, se consideriamo l’attività nei termini di lotta nei confronti della massimizzazione del tempo impostaci dalla società contemporanea.

La paladina contemporanea della conversione del sonno in esercizio di comprensione del contemporaneo, però, è solo una: Marina Abramovič. Nel 2014 ad Art Basel Miami la
regina della performance-art piazzò nel mezzo della fiera una serie di letti; invitando gli spettatori a riposarsi e prendersi una pausa dalla frenesia della manifestazione. Unica
regola: prima di mettersi in posizione supina gli ancora per poco astanti avrebbero dovuto riporre gli apparecchi elettronici negli appositi armadietti e indossare cuffie antirumore.

Marina Abramovič

Un anno prima, nel 2013, Ai Weiwei aveva fatto del dormire un atto di resistenza politica. L’artista aveva costruito ben 1000 tende nel suo studio in Beijing che avrebbero poi
formato un’installazione coralmente precaria lungo il fiume Emscher in occasione dell’ Emscherkunst Triennial Arts Festival. I visitatori le potevano noleggiare per riposarsi all’interno per un prezzo simbolico, empatizzando, così, con la provvisorietà del vivere a cui i migranti sono inevitabilmente soggetti. E in parte lo è ognuno di noi in termini forse più di stabilità emotiva, che non di quella eminentemente architettonica.

Aus der Aufklärung (2013), Ai Weiwei

Non c’è sonno però che non contempli l’insonnia. L’artista e psicoanalista Cesare Petroiusti nel 2012 tenne alla Fondazione Ratti il workshop Sogno d’Insonnia, riflettendo
sulle sue personali esperienze intorno alla zona perimetrale al sonno: “Una delle cose più fastidiose dell’insonnia è il fatto che spesso mi arresto ad uno stadio intermedio in cui avverto il sonno come molto vicino, ma ho anche la sensazione che la coscienza non riesca a ‘sganciarsi’ del tutto”. L’obbiettivo era solo uno: descrivere nella maniera più
vivida le visioni a loro modo oniriche che compaiono a ognuno di noi in questo stato di dormiveglia limbatico, dando vita a un calvinismo letterario (e performativo) del ricordo dei più sopraffini.