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Isola Art and Community Center: arte contemporanea e militanza nel vecchio quartiere Isola

Negli anni Zero Isola fu un centro di produzione artistica locale e internazionale inimmaginabile al cui centro c'era la produzione collettiva dello spazio pubblico di quartiere

quartiere Isola

Scritto da Piergiorgio Caserini il 27 febbraio 2023
Aggiornato il 15 novembre 2024

Isola Art Center, Isola Utopia e Nikola Uzunovski, 2015

Una volta, nemmeno tanto tempo fa, il quartiere Isola non aveva molto traffico, i vialoni pieni di negozi e hamburgherie e ristorantini e vinerie naturali non esistevano, e ancora si poteva guardare a Moscova dal cavalcavia senza incontrare l’ingombro dei tre alti grattacieli di Piazza Gae Aulenti. In quegli anni Isola teneva fede al suo nome, come un po’ è sempre stato nel corso del secolo. Mai quartiere dormitorio ma piuttosto quartiere operaio, sede di alcuni dei banditi e della malavita più selvaggia e scapigliata degli anni Venti (come il Bandito dell’Isola, Ezio Barbieri), quartiere antifascista e partigiano che recava ancora i fori dei proiettili d’esecuzione sul muro di via Sebenico/piazza Minniti (è il muro dell’oratorio) fino a luogo di lotta politica, artistica e urbana per arrivare a oggi: quartiere che ha ridisegnato lo skyline di Milano. In questo senso Quartiere Isola è forse una delle zone che più hanno coinvolto la città in diverse forme, lotte e utopie. Una tra tutte, che fa da sfondo all’immagine attuale del quartiere, è la storia – fondativa, per diversi aspetti – che avvenne in quella che allora prendeva il nome della Stecca degli Artigiani: Isola Art Center.

La Stecca era ciò che rimaneva di una fabbrichetta su due piani risalente a fine Ottocento, che in seguito all’abbattimento della fabbrica dismessa venne assegnata ad alcuni artigiani della zona. A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, c’erano ciclisti, restauratori, falegnami, saldatori, tappezzieri e così via. Non mancavano le bische e le piazze di spaccio, ma nei primi Duemila s’insediano le prime associazioni spontanee di quartiere, che danno l’avvio ai lavori nei giardini, ai mercatini biologici, alla riqualificazione partecipata dell’edificio e all’attivazione di laboratori, viene creata una camera oscura pubblica, una sala prove e una sala proiezioni, con tanto concerti frequentati dagli studenti del Conservatorio e pure il “Ristorantino alla Stecca”, nonché Isola TV, con una programmazione calata appieno nel territorio. Si potrebbe insomma pensare che quelli sono gli anni della gentrificazione, o meglio di ciò che solitamente la precede. È infatti in quel momento che le prime proposte di riqualificazione e di costruzione cominciano a saturare l’aria, con l’incombenza degli alti grattacieli che andranno poi a comporre piazza Gae Aulenti, i preamboli dell’Isola per come la conosciamo oggi.

Nel fermento creativo e oppositivo che connotava la stecca e l’Isola nacque nel 2001 Isola Art Project, un’iniziativa di un gruppo di artisti capitanati da Bert Theis.

Nell’arco di pochi anni il contesto del quartiere diventò politico, di conflitto. La situazione di allora fu addirittura commentata da Saskia Sassen così: «Troppo dislocamento, troppo potere che spinge i più deboli fuori». Nel fermento creativo e oppositivo che connotava la stecca e l’Isola nacque nel 2001 Isola Art Project, un’iniziativa di un gruppo di artisti capitanati dall’artista lussemburghese ma adottato a Milano Bert Theis, che diventerà poi Isola Art Center nel 2005. L’inizio del progetto è una serie di opere di Bert: tre lunghe panchine di 4 metri ciascuna intitolate Untitled/Untilted – gioco di parole che rimanda alla scultura site-specific di Richard Serra Tilted Arc, rimossa dal Federal Plaza di NYC – in legno bianco che si dilungavano lungo i giardini di Confalonieri, simboleggiando quel confine, quella barriera, che un piccolo quartiere e la sua comunità ergeva di fronte alla vertigine dei grattacieli.

L’idea di Isola Art Center era semplice: difendere lo spazio pubblico. Ragion per cui gran parte dell’organizzazione e dell’orizzonte artistico verteva proprio attorno a lavori site specific, tra la Stecca e il parco adiacente. Nel giro di pochi anni il progetto imbastì una rete internazionale di artisti, che mano a mano approdavano all’Isola e lavoravano di concerto con il quartiere. Furono ben tre generazione di artisti a passare dalla vecchia stecca, e occorre qui ricordarne alcuni, giusto per capirne la dimensione: John Armleder, Peter Kogler, Adrian Paci, Dan Perjovschi, Andreas Siekmann, Tomàs Saraceno (tutti artisti da lì a pochi anni si sarebbero affacciati alle grandi istituzioni del settore) ma anche dei giovani Luca Vitone, Stefano Arienti, il duo Kings con Federica Perazzoli e Daniele Innamorato, nonché Stefano Boccalini e un giovane curatore Marco Scotini che seguivano Bert dal 2002, e che costruiranno qui quel gruppo che andrà a comporre una generazione intera di insegnanti in Naba, tutt’ora all’attivo. Per altro, giusto per rimanere in tema ed evidenziare come certe tematiche e orizzonti di senso odierni trovarono alcove profonde ed efficaci in quegli anni, proprio Scotini curò una versione nostrana della celebre mostra The People Choice: nata originariamente dai Group Material del 1980 nell’East End a New York come una mostra-strumento che portava in galleria, o negli spazi deputati, oggetti che gli appartenevano o che potevano assumere senso per amici e famiglie, divenne qui un grande abecedario di progetti, idee e suggestioni per ripensare collettivamente lo spazio pubblico e per l’arte del quartiere.

Museo Aerosolar (2007), Thomàs Saraceno a Isola Art Center. Foto di Bert Theis.

Quel che muoveva Isola Art Center (e in verità tutta la pratica artistica di Bert Theis) era insomma l’orizzonte organizzativo dei movimenti di militanza: bottom-up, e lo strumento di lotta era l’arte. Così che ognuna di queste era pensata come azione finalizzata all’uso e alla frequentazione dello spazio, in un contesto sociale e politico specifico. E questo diede vita a un concetto altrettanto particolare, inquadrato nella prospettiva di lotta: fight specific. Esemplare in questo senso è l’approccio di out (Office of Urban Transformation), una piattaforma autogestita e autonoma per supportare la lotta alla gentrificazione del quartiere, che offriva un servizio di rendering e progettazione per le attività e le associazioni locali che ne necessitavano, creando così un canale alternativo rispetto al coinvolgimento progettuale delle Real Estate, e offrendo, secondo bisogni e richieste, spazi al quartiere per talk, conferenze stampa o quant’altro. Ciò che importava era insomma la capacità di produrre e immaginare spazio e, soprattutto, consegnarlo alla società.

In questa prospettiva si può inscrivere l’idea del Comitato di quartiere I Mille, che assieme a Isola Art Center stilò nel 2004 un documento firmato da migliaia di abitanti e vicini per trasformare la Stecca in un Centro per l’Arte e per il QuartiereIsola Art & Community Center –, e questo ancora prima che i quartieri sarebbero diventati trend come sono oggi e in quel prima in cui ancora l’arte, lontano dalle grandi metropoli globali, poteva pensarsi come strumento di lotta e autodeterminazione. L’idea era quella di un museo flessibile e senza budget di sorta, una non-istituzione, che covava il sogno, però, di riformare l’idea stessa di istituzione e fondarla sulla prospettiva del cambiamento sociale, consapevoli che l’arte, con musei, gallerie, pubblic programs, festival e annessi vari sono tutti potenziali strumenti al servizio della gentrificazione. E visto che il meccanismo è sempre lo stesso in ogni angolo del mondo, da qui si dipanano veri e propri strumenti, laddove lo strumento è sempre un modello “di misura” e d’azione, ripercuotibili in altri luoghi. L’esempio che forse più di ogni altro ha portato avanti questo orizzonte d’attivismo artistico e sociale, aggregativo e autonomo, è di certo Macao. Che oltre ad aver riportato la scritta in neon New Museum, a opera di Kings (Federica Perazzoli e Daniele Innamorato) e realizzata inizialmente per la Stecca degli Artigiani e Isola Art Center, nacque d’altronde proprio dalla frammentazione del gruppo avvenuta in seguito all’abbattimento della Stecca nel 2007, con la leggendaria occupazione di Torre Galfa cinque anni dopo.

Isola Utopia, uno dei pochi esempi che abbiamo di utopia concreta metropolitana, convissuta da una comunità e da un quartiere, pensata come piattaforma aperta.

Terminata l’esperienza, l’Isola Art Center si spostò dove gli si offriva spazio, quando lo spazio era terminato ma l’orizzonte rimaneva ben visibile. Realtà che ancora esistono, obiettivamente relegate ai margini dell’attuale quartiere come Isola Pepe Verde, Piano Terra, l’asilo autogestito Sottosopra, tutte realtà che devono a Isola Art Center e all’idea di Fight Specific la propria vocazione e che ne portano la memoria. Come non ricordare poi di ciò che avvenne nei vari locali, trattorie e bar che ospitarono mostre di artisti che – anche lì – sarebbero presto diventati giganti. Come non dire di Luca della Cantinetta, che ospitò tutta una serie di mostre nella trattoria di Piazza Archinto, con tanto di Pipilotti Rist in video a sfondare le macchine e Rirkrit Tiravanija a fare i pranzi collettivi?

Diciamolo, parlare ora di gentrificazione con la stessa urgenza di vent’anni fa è un lavoro di riesumazione. Quelle istanze sono state via via depotenziate, cestinate da un entusiasmo tutto cittadino per il nuovo, per il servizio, per gli skyline – complice un’idea di greening che fa, in sostanza, da cavallo di Troia –, cosa che conduce a una diffusa forma di adeguamento che si vuole politica, comunitaria e di sinistra ma che poi cavalca puntualmente i trend del momento. Dopo l’amabile delle politiche urbane da fioriera e strade pedonali, passando all’oggi con quell’immagine da città globale, dagli spazi ampi e lunghi boschi a grattare il cielo, tutte tese a lubrificare una lotta senza che questa si manifesti e perciò politiche estetiche preventive, ripensare a quell’esperienze di Isola, alle forme partecipative e dal basso che misero in moto una realtà collettanea riconosciuta internazionalmente (basti pensare alla mostra postuma dedicata a Bert Theis al MUDAM in Lussemburgo, o alle uscite a Medellin o a Lubiana) serve oggi a poter immaginare i prossimi anni. In questo senso, Isola svolse insomma, come scrisse lo stesso Bert, il ruolo di Utopia: Isola Utopia, uno dei pochi esempi che abbiamo di utopia concreta metropolitana, convissuta da una comunità e da un quartiere, pensata come piattaforma aperta. Per riprendere uno di quei termini che costituiscono oggi l’orizzonte urbano – e anche in seno alle politiche istituzionali – è giusto qui parlare di utopie di prossimità, ma nate da un’idea di arte come strumento di antagonismo, di lotta e allora di affermazione collettiva.