“Mi chiedo se non sia stato con un rito di sfida e di pietà per i morti che la tragedia nacque tremila anni fa, sulle pianure di Argo.”
Sfida, pietà e morte hanno dato vita alla Tragedia, cioè al Teatro. E la morte, Nekrošius (Pažobris, 21 novembre 1952 – Vilnius, 20 novembre 2018), ce l’aveva già nel nome, in quel prefisso Nekr- così ferale almeno per noi che lo immaginiamo, probabilmente sbagliando, di derivazione greca.
E questo, assieme alla sua aria non certo da allegrone, cranio vampiresco, occhi di ghiaccio, stazza da pugile e look da gesuita, o a quelle -as lituane dei grandi classici portati in scena in una lingua impossibile (Hamletas, Otellas, Makbetas, Faustas), ci aveva sempre messo una certa soggezione.
Sfida e pietà, di certo, c’erano nel suo Teatro. La sfida passava attraverso i corpi degli attori, portati allo stremo dell’acrobazia non solo funambolica ma soprattutto emotiva, alta scuola russa declinata in modi che a noi, che eravamo abituati principalmente a un Teatro di parola e, se andava bene, di poesia, apparivano magnetici.
La pietà era nella sua visione della vita, pietà nel senso più alto del termine, di chi soffre perché capisce troppo della condizione umana, e così cerca dannatamente la fuga o la catarsi, forse anche nel vino, di certo nell’arte. E che arte.
Non abbiamo l’ambizione o lo scopo di tentare analisi del suo percorso teatrale, di spiegare cos’è diventato nel mondo il teatro Meno Fortas di Vilnius, un luogo una volta alla periferia dell’impero che ci auguriamo ora non ritorni nell’ombra. Tutto questo hanno già fatto e faranno in questi giorni e nei prossimi mesi molti altri, meglio di noi ed in più opportune sedi.
Qui vogliamo solo provare a evocare per un attimo l’acqua, la terra, i salti, i giovani corpi tesi, la musica assordante, le botole e i colpi, le luci e i controluce, gli specchi, il candelabro di ghiaccio, i coltelli, tutto quello che faceva grande con poco il Teatro di Nekrošius, tutto quello che rendeva rituale un semplice pezzo di legno come fosse il Sacro Graal, tutto quello che non potrà più vivere ora che non vive il suo demiurgo, ma che ha plasmato chi ha goduto almeno un suo spettacolo, scuotendolo con forza elementare, primordiale, tellurica, ancestrale. Termini che rendono solo vagamente l’idea di quelle ore lunghe, dense come pioggia fredda sulle mani, a volte inintellegibili, eppure nel complesso facili e piane, perché universali.
Nekrošius lascia molti figli, che non sono i suoi spettacoli, perché quelli sono morti con lui e non c’è video che possa rianimarli. I figli siamo tutti noi, che quegli spettacoli abbiamo visto e che forse abbiamo la forza, di certo la voglia di testimoniarli. Perché il Teatro è questo, un breve lampo da ricordare, segue al buio e dal buio è seguito: tocca a noi, orfani fortunati, farlo.