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L’accidente tra testo e immagine in “Finite Rants” di Fondazione Prada

Un progetto di video-essay che fa un’accurata diagnostica dell’espressione testuale e filmica nella cultura memetica

quartiere SouPra

Scritto da Piergiorgio Caserini il 19 ottobre 2021

Finite Rants #8, "Season Ending (The Day Of Forver)", di Shumon Basar

La questione ostica di come rendere più immediato il testo, che è poi quella di accelerare e rendere più fruibile l’informazione, è debitrice di un certo rapporto con la durata e l’attenzione che abbiamo, nel corso degli ultimi decenni – ma pure dell’ultimo secolo –, eroso. Più o meno negli stessi termini in cui si è eroso il terreno. Proprio come si sciolgono i ghiacciai. Proprio come in troppi hanno difficoltà nel ricordarsi che i ghiacciai si stanno sciogliendo a poche centinaia di chilometri e intanto si dimenticano anche della notizia appena letta. C’è troppa fretta, poco tempo, e in molti casi l’informazione testuale non riesce a essere assimilata. Sarà anche che l’erosione dell’attenzione è correlata a quella stupidità tutta moderna che non rende visibile l’erosione del terreno. Per certi aspetti, poi, forse anche il cinema risente dello stesso complesso, ma lo esprime nei termini serrati della serialità (il terrore di quanti film/volumi sarà Dune). Complesso, anche qui, che nasce dall’equazione patologica che determina la fruizione e i media, ovvero: disturbo generalizzato dell’attenzione e scarsa economia del tempo, rapida obsolescenza dei contenuti e sovrascrittura costante degli stessi, tendenzialmente data da una cultura bidimensionale fruita per scroll, per cui oggi Panta rei potrebbe essere sinonimo di oblio.

Finite Rants questione i media; chiede a quali ibridazioni il rapporto testo-immagine si presta nell’era memetica dell’informazione culturale.

Insomma, la difficoltà a trovare formati di comunicazione ed espressione adeguati alle patologie dei tempi che corrono richiede di pensare a quali altre strade intraprendere. Non sempre sono nuove, ma poco importa: a essere in questione è l’efficacia. Qui arriviamo al lavoro che Fondazione Prada ha svolto negli scorsi mesi: Finite Rants, curato da Luigi Alberto Cippini e Niccolò Gravina e andato anche al Film Festival di Pesaro, è una raccolta di video-essay che intende riflettere sul media, su che cosa il cinema possa diventare ma anche, di conseguenza, a quali ibridazioni il rapporto testo-immagine si presta nell’era memetica dell’informazione culturale.

“La Jetée”, Chris Marker

Ovviamente, il confronto parte da un maestro del genere: Chris Marker. Che, dobbiamo dirlo, è più conosciuto nel mondo dell’arte che altrove. Dal celebre La Jetée fino al capolavoro di Sans Soleil, Marker è stato ed è un modello di confronto sull’uso di materiale randomico. Qui, per Finite Rants, l’obiettivo di Fondazione Prada è quello di trovare, per l’appunto, altri modelli di produzione visuale attraverso pratiche di post-produzione e montaggio di materiali grezzi ed eterogenei nell’epoca della riproduzione – e saturazione – digitale.

Gli artisti invitati a confrontarsi con i testi, commissionati o ripresi da saggi, di giganti della critica provenienti da diversi ambiti: ci sono Alexander Kluge elaborato da Satoshi Fujiwara, Bertand Bonello, Brady Corbet, Cristian Marazzi, Eduardo Williams, Caroline Poggi e Jonathan Vinel, Shumon Bazar, Alessia Gunawan, Kate Crawford, Elizabeth Diller, per un totale di 11 video elaborati dagli autori stessi.

La massima quantità di informazione è parallela, a volte, a una minor qualità di comprensione.

Se per certi aspetti si sente il sapore di quella passione per gli archivi e i materiali grezzi – e vorremmo chiamarla con il suo vero nome: FOTTA – che a volte rischia di riscontrare tendenze necrofile, bisogna anche capirne la distinzione rispetto a quell’estetica del frammento che persevera dal postmoderno, rispetto alla moltiplicazione dei punti di vista che trova il suo senso proprio nella parcellizzazione. Una possibile distinzione, è che più del senso di “rovina”, del venir meno delle narrazioni unitarie, qui è quel senso del troppo-veloce, della sensazione di impotenza rispetto alla sovrapproduzione di contenuti. Sarà per questo che molti video riprendono quella dimensione dell’istante, fulminea, dell’abbaglio o dell’incidente. Una sorta di epilessia dell’immagine che a tratti – soprattutto negli editing di Tosini – porta al parossismo quel meccanismo che un pensatore come Paul Virilio ha chiamato dell’accecamento: quel continuo riproporsi di immagini, discorsi, all’interno di un regime che assume come principio quello della saturazione – e perciò quello dell’attenzione –: la massima quantità di informazione è parallela, a volte, alla minor qualità di comprensione. È un assunto che vale, diciamolo, nel momento in cui non esiste un’ecologia delle immagini, o una certa educazione – ecologica anche questa – all’attenzione.

Prendiamo un esempio a caso – scherziamo, rispetto totale per –: Cristian Marazzi, con lo zampino visuale di Francesco Tosini. #4 Re-mesh è l’innesco di un incubo: un’immaginaria trasmissione paneuropea parlata da una voce sintetica, silicea, con un’estetica che prende di petto le suggestioni memetiche del XXI secolo mentre la recitazione meccanica delle riflessioni di Marazzi insinua le avvisaglie su quel pensiero preventivo, anteriore, che il Capitale si porta appresso da sempre, nel tentativo di riprodurre le previsioni in un complesso di iper-riflessività (traduciamo così hyperreflection, portandocelo dietro da un librone che prima o poi qualcuno tradurrà e farà un mucchio di presentazioni fighette: The Future as Catastrophe. Imagining Disaster in the Modern Age, di Eva Horn; 2019) che vuole colonizzare il futuro. Insomma, la previsione non è altro che una profezia autoavverantesi – come si dice oggi – o una iperstizione – come dicono dal CCRU –: un futuro che va alla conquista del passato assicurandosi di avvenire.

Ci si ritrova all’interno di un meccanismo di reiterazione che ha a che fare con l’immagine, con la velocità e la saturazione, insomma: coi memi.

Perché in fondo è qui, sulla fine delle grandi narrazioni, che arriva il disorientamento; che è poi il punto di partenza di Season Ending (The Day Of Forever) di Shumon Basar, dove il lavoro di montaggio e composizione, il recollect, che cerca di far fronte al termine della memoria, soffre di una collassofilia cronica, tra catastrofi di massa e traumi politici.

Insomma, potremmo farla ancora più lunga. Di fronte all’impressione sempre maggiore di una certa inefficacia della comunicazione o della divulgazione, quando queste si ritrovano a essere multipolari nel panorama dei discorsi – non tanto questione di fake news, ma di cultura del complotto –, pensare come ribaltare la questione dei formati espressivi e dei contenuti è decisamente una potata bollente. Perché comunque ci si ritrova all’interno di un meccanismo di reiterazione che ha a che fare con l’immagine, con la velocità e la saturazione, insomma: coi memi. E Finite Rants pare che si confronti con questo panorama. Quello del sistema complesso della cultura, dell’ecologia dell’attenzione e delle immagini. Perché è giusto pensarne anche i limiti attraverso altri lavori di ricerca ed espressione.