Anche le città, come le case, hanno la loro porta d’ingresso. Quella di Milano è la Stazione Centrale. Adorna della lunga e larga prospettiva rappresentata da via Vittor Pisani, ricorda la porta d’ingresso di casa di una qualche nonna, che si affaccia su un lungo e inutile corridoio. Nelle tipiche giornate grigie e dense di nebbia, per effetto della composizione urbanistica, il punto di fuga di piazza della Repubblica sembra suggerire l’estendersi di una metropoli moderna e severa. Lo stradone di via Vittor Pisani, costruito per collegare l’area della vecchia stazione alla nuova, sembra doverci portare chissà dove e invece si slarga soltanto in piazza della Repubblica. Passaggio disagevole quando non si vola e giuntura ricca di attraversamenti e intersezioni, che ospita il Monumento a Mazzini realizzato nel 1974 da Pietro Cascella, fortunato scultore del precoce Mausoleo di Berlusconi.
Insomma, la sensazione, qui, è che nonostante i ritardi nella costruzione e i tentativi falliti di produrre un brano di città moderna davvero di qualità, l’intervento ha avuto piuttosto il merito di ordinare e uniformare la zona. Forse per ridonarle un po’ di smalto basterebbe cambiare una vocale al nome: Vettor invece che Vittor, in onore di quel geniale artista che faceva dell’appropriazione e del ribaltamento la sua cifra.
Dietro di noi la facciata della Stazione Centrale. Correva l’anno 1931 dell’era di Cristo, come riportano i caratteri del bassorilievo sul portale principale. Inaugurato sotto la direzione di Ulisse Stacchini, questo edificio merlettato è nato tardo. Architetto ottocentesco, Stacchini è stato chiamato a celebrare la porta di Milano in pompa magna, in piena stagione razionalista. Nei primi del Novecento, la Stazione Centrale esprime il suo sfarzo decorativo e sontuoso con un misto di Liberty e Déco, nonostante i fasci in basso rilievo e la grandiosità della galleria interna ne ribadiscano i natali sotto il Regime. Dopotutto, se guardiamo altre stazioni inaugurate nello stesso periodo in Italia, per esempio quella firmata da Giovanni Michelucci a Firenze, ne apprezziamo il modernismo razionalista, l’espressione principale dell’architettura durante il ventennio fascista. Due goffi esercizi di stile purtroppo assai visibili, la mela di Michelangelo Pistoletto e il triangolo luminoso di Mario Botta, sembrano voler giocare con l’iconografia massonica imponendosi nel groviglio semiotico del piazzale, che per il resto è un compendio della storia dell’architettura meneghina.
La torre Breda è il peccato originario della Milano moderna: la copia della Madonnina oltre la guglia del Duomo.
Con la Stazione Centrale alle spalle, lo sguardo si posa inesorabilmente sulla Torre Breda, che si staglia sul fondo della prospettiva Pisani, con le antenne sulla cima. Progettata da Luigi Mattioni nel 1955, ebbe il merito di superare la vetta del capoluogo lombardo, la Madonnina del Duomo. La Torre Breda, anticipando il Pirellone, è stata il primo sacrario – il peccato originale della Milano moderna – a ospitare una copia della statuetta in rame dorato della Madonnina oltre l’altezza della guglia del Duomo. Un gesto di devozione che rivela l’idolatria della ricchezza da parte dell’élite milanese negli anni del grande boom economico.
Il Grattacielo Pirelli, posizionato al di qua del viale rispetto alla Torre Breda, è la spilla che segna l’avanguardia sulla mappa di Milano e ruba alla Breda il primato dell’altezza. Gio Ponti e Luigi Nervi, i principali progettisti, raggiunsero la vetta d’Europa nella prima metà degli anni Sessanta con questo colosso di calcestruzzo armato. In anni più recenti, Cesar Pelli inaugura la Torre Unicredit, un’operazione d’antan paragonata al Pirellone. L’edificio attualmente più alto d’Italia, con i suoi 231 metri, ha rinnovato il gesto di devozione dei milanesi alla Madonnina rappresentando l’intero profilo del Duomo: guardando il panorama dalla Torre Velasca, ci si troverà con il profilo laterale del Duomo in primo piano e il profilo laterale della torre di Cesar Pelli sullo sfondo, e ci si accorgerà che le linee dei due profili seguono lo stesso percorso. Come a dire che prima c’era la Chiesa e ora c’è la Banca…
I resti della Cascina Pozzobenelli, seppur sovrastata dagli alberghi postmoderni spocchiosi e cafoni, ha un ruolo determinante nel profilo meneghino.
Questo errare crepuscolare tra i palazzi sta diventando pesante. Così lo sguardo precipita verso qualcosa di più antico, con più gravità. Verso Piazza Luigi di Savoia, oltre i rami di un grande albero, si scorge rannicchiata nel cortile di un hotel in Via Doria una cappella rinascimentale attribuita a Donato Bramante, con l’edicola e alcune campate del portico laterale. Sono i resti della Cascina Pozzobenelli. Seppure gli alberghi postmoderni che la circondano la sovrastino, spocchiosi e cafoni, questo piccolo gioiello inosservato ha un ruolo determinante nel profilo meneghino. Si dice che Luca Beltrami, uno dei primi restauratori moderni, per la costruzione della Torre del Filarete si avvalse proprio degli affreschi ritrovati nel portico di questa cascina. Alcuni di questi rappresentano il Castello Sforzesco nella sua configurazione iniziale, con la Torre del Filarete crollata nel 1521 che il Beltrami ricostruì nel 1905.
Certo che, percorrendo Via Doria da Piazzale Loreto, la scenografia è sensuale. Gio Ponti ha imposto la sua visione mettendo in fila Palazzo Montedoria, una nave di uffici smaltata verde che si arena in Piazza Caiazzo, e il Pirellone. A dare corpo all’armonia longitudinale di questo razionalismo italiano, l’isolato INA di Giovanni Muzio e del figlio Lorenzo. Costruito a metà degli anni Sessanta dopo la demolizione dell’Istituto Figlie del Sacro Cuore di Gesù, ospita abitazioni e uffici. I clinker color mattone e l’armatura bianca ne dichiarano una modernità austera e armoniosa nel suo cubismo. Lo stesso sguardo fluttuante ed etereo si posa poi sopra la Torre Galfa che svetta dietro il Pirellone. Progettata negli stessi anni da Melchiorre Bega per ospitare gli uffici della raffineria Sarom, è passata a maggiore fama dopo che l’occupazione del 2012 l’ha trasformata in Macao, Nuovo Centro per l’Arte e la Cultura di Milano.
Da una parte all’altra, lo sguardo rimbalza e torna dal lato opposto del quartiere, in via Settembrini, su Casa Carugati-Felisari o Palazzo Pathé, costruito intorno al 1910. Questo scenografico palazzo in stile eclettico e dall’aspetto esteriore medievaleggiante, sede storica della filiale italiana della casa cine-discografica Pathé, è un’altra delle estrose creazioni del celebre architetto piacentino Giulio Ulisse Arata, autore tra l’altro di quei capolavori del Liberty milanese che sono il palazzo e la casa Berri-Meregalli. Anche in questo caso si assiste a un’ardita quanto sapiente commistione di Liberty e Decó, in una eccentrica veste neoromantica. I materiali e gli elementi decorativi conferiscono originalità e un forte impatto visivo. Tra i particolari, meritano attenzione i magnifici ferri battuti forgiati magistralmente da Alessandro Mazzucotelli e il bel mosaico di Galileo Chini che impreziosisce l’ingresso di Via Boscovich. Nel 1919 la Pathè Cinema dovette lasciare il palazzo per un ridimensionamento aziendale. Da allora, e per molti anni, rimase vuoto. Ora la casa sembrerebbe abitata, o comunque occupata, da qualcuno. A certe ore della sera le luci sono accese, anche se dall’interno proviene sempre un silenzio tombale. D’altronde, al posto dei consueti nomi e cognomi degli inquilini, sul citofono si leggono “Fuoco”, “Vento” e “Terra”.
Non resta che passarci davanti e continuare a lasciare che lo sguardo evapori fino all’arrivo dell’alba, e tornerà a guardare a terra.