Il cielo è muto. Nonostante tutti i millenni passati a domandare alla volta celeste, alle stelle, mai una risposta è arrivata. Il dramma dell’umanità è sempre stato il silenzio: l’indifferenza senza collera e senza pietà della natura. La noncuranza di una foresta, il distacco di un deserto, l’insensibilità del mare, l’imperturbabilità delle stelle. Why are you staring at me?
Ma le stelle sono tutto, amici. Sono state mappe, cartografie, storie, meglio ancora: storie che erano mappe, strumenti per orientarsi nel mondo. Proprio come gli scarafaggi stercorari che, nell’idilliaca occupazione di spingere pallette di merda, guardano al cielo per trovare ogni volta, immancabilmente, la strada giusta.
Detto questo, dopo esserci resi conto delle grandi questioni che accompagnano l’umanità nel corso di ogni storia e aver appena intuito della fratellanza che ci lega a chi sposta ostinatamente la merda, dobbiamo anche dire che la volta stellata, più che parlare, le si parla sopra. Sarà per rompere i silenzi, l’imbarazzo, ma non quello blando di un silenzio in pubblico, quanto quello dell’uomo leopardiano. Crisi, pessimismo. È anche vero che il vuoto spaventa, ed essendoci sempre, costantemente, bisogna trovare strategie per riempirlo. Come quando chiudendo le palpebre c’è “qualcosa”, del colore, e si muove. E lì si capisce che stiamo bene perché stiamo male. Come specie. Perché tracciamo linee e immaginiamo forme in quel fenomeno fondativo che è la pareidolia o l’immaginazione apofenica – il riconoscere pattern a cazzo e schemi in dati a casaccio – e le si racconta, le si confermano, ci si crede. Come la fratellanza con lo stercorario. E fa bene.
Insomma, si parla sopra il cielo per far parlare il cielo. C’è un processo strano, del linguaggio, che è quello di far parlare le cose, di avere il mondo come interlocutore o forse come ventriloquo. E i Planetari funzionano allo stesso modo. Sono muti, proprio come il cielo e le sue stelle, e ci si parla sopra.
E il cielo che si vede è quello. Una volta stellata del Sessantotto. Per avere un po’ di nostalgia delle Rivoluzioni rosse ma anche delle Rivoluzioni celesti.
Quali storie raccontano le stelle? Ma soprattutto, a Milano, dove sono le stelle? Coperte dalla coltre giallo-grigiastra che veste l’atmosfera meneghina, c’è un solo posto in cui il cielo rimane intonso da novant’anni: il planetario Ulrico Hoepli, nel bel mezzo dei lussureggianti Giardini di Porta Venezia che furono zoo e stalle per elefanti simpatici. Costruito su progetto del Portaluppi, il Planetario di Porta Venezia non detiene il primato italiano per pochissimo tempo – è inaugurato nel Trenta, a un anno di distanza dal vecchio Planetario romano nelle terme di Diocleziano –, ma ha di meglio: conserva ancora il proiettore meccanico più vecchio del Paese. Un gioiellino, uno Zeist del Sessantotto, uno dei quattro ancora funzionanti al mondo. E il cielo che si vede è quello. Una volta stellata del Sessantotto. Per avere un po’ di nostalgia delle Rivoluzioni rosse ma anche delle Rivoluzioni celesti.
Il fatto che la volta ruoti meccanicamente ci suggerisce che in fondo il Planetario sottende un modello tolemaico, mica copernicano: al centro sta il proiettore e intorno l’universo, con tutti i suoi movimenti bizzarri e bislacchi. Ecco, dovete sapere poi che i pianeti non si muovono pacatamente in traiettorie ellittiche, ma zigzagano a velocità impressionanti, roba da chiedervi se qualche amico v’abbia messo una pasticca nel bicchiere. Perché questo è anche il senso del Planetario dei Giardini: popolare, serale, da svago, insomma: ci si diverte, e per questo si fa cultura. E infatti Ulrico Hoepli donò questo gioiello meccanico assicurandosi di due cose soltanto, che sono i vincoli che tutt’ora il planetario conserva: quello spazio non sarebbe mai stato usato per reclamazioni, e sarebbe dovuto servire esclusivamente per la divulgazione popolare dell’astronomia. Per questo il Planetario è un teatro delle stelle, e non per niente era anche pensato come cinema.
Stando sui regimi di stati alterati di coscienza, dovete sapere anche le bizzarrie dell’architettura. Oltre allo stile neoclassico, con quel pronao sfacciato, le colonne spesse, il timpano perfetto, il Planetario non segue le regole auree dell’orizzontamento: lo skyline di Milano disegnato alla base della volta – fatto dal Portaluppi – è posizionato male. Nel senso che è ruotato, che il profilo del Duomo non sta dove dovrebbe stare. Qualcuno dice che è allineato con Corso Buenos Aires, la Via Lattea e lattiginosa di Porta Venezia, ma la realtà è che, essendo teatro, l’unico punto cardinale che conta è il racconto, il conferenziere, l’Omero-persona-multipla che da novant’anni racconta le storie del mondo unendo i puntini della volta al pubblico meneghino. E deve stare dove vede tutto: all’ingresso su Corso Venezia, allineato con Buenos Aires.
Ecco, immaginate ai primi del Novecento, quando da pochi anni si sapeva distinguere le stelle dal colore, la spettroscopia era nata da poco, e in qualche modo era nata una nuova volta celeste. Poco più tardi si sarebbe anche notato un certo sfarfallio rossastro, quello dell’accelerazione espansiva dello spazio, ma questa è un’altra storia. Bisognava raccontare stelle che non avevano più lo statuto di mappe, ma di meraviglie, di storie, o al limite di oggetti scientifici e astrusi di studio.
Possiamo vedere brillare le galassie, ascoltare l’asmr dei segreti del mare ghiacciato d’Europa, conoscere il Bifolco, la Vergine e Arturo.
Insomma, lo spazio puntato da lucette distanti, dal vivo, non lo vedremo mai. I viaggi orbitali ce li sogniamo. Lo spazio profondo, freddo, silenzioso ma affollatissimo anche. Ma abbiamo i racconti a tenerci compagnia e a legarci alle costellazioni. E se a Milano col cazzo che vedremo la volta stellata dai parchi, che siano il Nord, il Ravizza, Monte Stella, tutti coperti dal manto denso e afoso da sacchetto di plastica che ricopre la turbo-città, dai Giardini di Porta Venezia possiamo vedere addirittura meglio che in altri Planetari, perché solo i proiettori meccanici, con le lampade e le lastre bucate di stelle, fanno il cielo nero come si deve.
Possiamo vedere brillare le galassie, ascoltare l’asmr dei segreti del mare ghiacciato d’Europa, conoscere il Bifolco, la Vergine e Arturo, le costellazioni e la stella primaverile, sapere che Boote, il Bifolco, è anche Pastore, che Virgo è Demetra rapita da Ade – che era a tutti gli effetti una brutta persona ma gli riconosciamo la Primavera –, e sapere che un ammasso di galassie come quella della Vergine comprende qualcosa come duemila altre galassie, che a sua volta sta nel Superammasso di Laniakea, centomila galassie, al cui centro c’è quella misteriosa entità indecifrabile che non è dio ma è conosciuto come il Grande Attrattore, il direttore d’orchestra del movimento di tutte le grandi galassie di Laniakea, compresa la Lattea, il sistema Solare, la Terra, e Porta Venezia.
Per salutarvi, un consiglio di lettura di un grande storico della filosofia delle scienze, il buon Alexandre Koyré: Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. L’abbiamo sempre trovato affascinante. Poiché seppur tra i greci e noi si pone quella distanza che è la misura matematica tra cielo e terra, insomma, considerarli tutti e due conoscibili, troppo umani, guardar le stelle, almeno per noi, ha sempre la misura del pressapochismo: si sogna, si racconta, e da lì ci si muove nello spazio del mondo, che in fondo è quello non si percorre ma si parla, per evitare i silenzi e saper leggere le stelle come l’amico stercorario segue ostinatamente la Via Lattea.