Ad could not be loaded.

Matrioske di polvere

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Enrico Nottoli il 19 aprile 2020
Aggiornato il 27 aprile 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Ero ritornato con la fidanzata Camelia nella mia casa d’infanzia, su in montagna, isolata fra le foreste, specie per piantare e coltivare patate negli appezzamenti di sotto, che iniziava a essere l’ora. I campi arati si stendevano nel panorama sottostante a tagliare il verde della primavera con sorrisi di terra, quelli degli avi che avevano fatto lo stesso per millenni, per vivere. Prima del virus, ero andato ad abitare con lei nella piccola cittadina in fondo alla valle della Garfagnana, in un appartamento, in mezzo alle alte pareti rocciose che proteggevano da sempre i declivi di boschi e funghi della nostra terra. E da quando anni fa avevano rotto con mio padre, anche mia madre e il mio amato cane Spirito, mezzo pitbull e mezzo bastardo, abitavano laggiù. Se ne erano fuggiti da quella casa quasi maledetta dalla bellezza stessa. Proprio come me.
Era da un mese che era iniziato l’isolamento. Io mi sognavo spesso del cane. Quelli parlavano di quanto fossero fieri della collaborazione della popolazione italiana riguardo le restrizioni in seguito all’epidemia, ma più che collaborazione parevano tentati lavaggi del cervello di massa, con stronzate di slogan idioti nei social, come “IO RESTO RINCHIUSO”, e soprattutto orde di pattuglie di polizia e paura, minacce e multoni senza pietà.

Si sa, come al solito si confonde spesso la democrazia con dittature a metà.

Quello di non essere costretti ad andare a lavoro, anche se non lo ammettiamo, è stato forse il beneficio più grande del Covid19 per tutti. Ma il merito maggiore che ha avuto il virus (si fa per dire) per me, era stato ricucire assai di più il rapporto con mio padre. Dopo anni tiepidi, quella convivenza e un affetto profondo ma occulto ci hanno riportato a volerci bene. Bene a modo, dico. Con lui, e con il suo nuovo cane Notte, brachifagico e bestiale, che fa un casino della madonna ogni volta che respira ma che, nonostante l’aspetto da drago mostruoso e la netta somiglianza in volto a mio padre stesso, si fa mangiare nella sua ciotola dall’altro pointer da caccia.
Ma mia madre e il mio Spirito, purtroppo, erano esclusi da tutto questo per vecchie vicende che non sto a dire e per le abitudini.
Finché un giorno, riaperte alcune attività fra cui quelle che comprendevano l’agricoltura, mia mamma ha colto la palla al balzo per venire su e stare lì un intero fine settimana. Con il cane, pure.
Mentre mio padre era fuori per tutti e due i giorni. E la casa, dove lei non dormiva più da ere ormai, sola per noi. Perché lei è coltivatrice diretta e io un patataro di circostanza con il mio amico che canta sempre vecchi stornelli del paese.

Non ci vedevamo da più di un mese. Quando sono scesi dalla macchina, quei due, c’era il sole alto e la natura in trionfo come ogni aprile, mese crudele una sega.

Spirito è corso disperato di felicità verso di me, si è tirato per terra a pancia in su e ha iniziato a rotolarsi e farsi grattare il buzzo piangendo d’amore. La mamma invece mi ha raccontato tutte le sue storie cittadine: voleva uscire con la tuta da carcerata finta di un qualche vecchio carnevale quando sarebbe tornata di nuovo a spasso con il cane, in quei suoi duecento metri di cemento, e poi che dipingeva poesie sul muro della sua minuscola casa piena zeppa di oggetti, con su scritto: “LIBERTÀ”. E poi mi ha chiesto un abbraccio. Poi un bacio, mentre passeggiavamo fra i campi. E io gliel’ho dato, contento. E nonostante le stronzate claustrofobiche e il maniacale terrorismo di quelle odiose scatole oscure, che a volte si illuminano, sì, ma solo per sparare sputi infetti intorno ad esse, i ciliegi erano splendenti di fiori immacolati e gli insetti gli danzavano attorno in un’aria frizzante di vita. Un po’ d’ossigeno ce n’era ancora. Fuori. E c’erano anche i grilli tutti intorno in coro fra margherite e betulle ed euforbie e piscialletto e frassini appena sbocciati …
No, non racconto dello spaventapasseri che abbiamo costruito insieme per l’orto coi vecchi vestiti dei nonni e il cappello di paglia vinto anni prima a una festa con shot di rum e una sbronza epica da mio fratello.
Né della caccia alle lucertole e ai ramarri (mai visti come quest’anno) di Spirito nell’erba alta. È un lupo selvaggio, quel cane, o una volpe. Siamo simili: sebbene tanto spesso stravaccati sui divani, si muore senza i prati, si muore senza i monti. E specie senza essere liberi.
Né dico di come fosse buffo il cucciolotto del babbo, così innamorato di Spirito, mentre ingenuo se lo cercava di trombare a ogni passo e se lo sleccazzava tutto, bofonchiando.
Né della birra bevuta la sera dopo aver potato per ore le rose e le camelie, a cui sono allergico, ma chi se ne frega.
O di Venere che splendeva nel cielo e si poteva ammirare, senza un soffitto sopra.
O del film sotto le coperte a sera, con il mio cane che mi russava dolce sotto il braccio.
O dell’amore fatto in silenzio la mattina con Camelia, cercando di far piano per non farsi sentire.
Mentre i fringuelli pigolavano belli pimpanti sul tetto. C’era pieno di uccellini vispi di buonora, quel giorno.
O del bastone da sciamano bianco di castagno, intagliato per riti magici o darlo in testa a quel chioccorone di Notte se se ne andava nei campi seminati.
O della passeggiata nella selva solo col mio Spirito.
O della tisana dal nome esotico.
O della mezza discussione con la mamma, subito, perché voleva prendersi una matrioska
impolverata e alcune campane tibetane, dicendo che temeva venissero perdute o rotte, lassù. O forse per il tentativo impossibile di strappare via un pezzo di anima da quella nostra vecchia casa, per portarlo con sé. Come si fa con la vita e i ricordi.

O il passato. Una matrioska pure quello. Che scoperchi e scoperchi, finché non finiscono i pezzi. E ti accorgi di non averne guardato per bene neanche uno.

Allo stesso modo mi sono accorto del mio amore abissale per Spirito e la mamma, quando se ne sono dovuti ripartire dalla stessa auto dalla quale erano scesi, nel sole di due giorni prima, sebbene ora paresse più scura. E se in quei due giorni a volte rompevo i coglioni per l’allergia al polline e le pulizie sfegatate della mamma, adesso tutto mi sembrava così stupido. Come il non riuscire proprio a mostrare l’affetto finché non è troppo tardi e le macchine ripartono e le persone scompaiono.
Almeno un attimo prima che andassero via, però, mi sono abbracciato tanto a Spirito, che proprio non voleva saperne di separarsi, e adesso ho chiesto io un bacio alla mamma.
Dopo di che Camelia è andata a farsi la doccia. La sentivo in lontananza mentre parlava e cantava fra sé. Radiosa come suo solito.
Il papà sarebbe rientrato dopo poco e messo alla sua tv, addormentandosi dopo dieci minuti di sicuro, nemmeno il tempo di portargli la tisana avanzata dal giorno. Ma stavolta non prima che gli raccontassi d’un fiato, come un rapper, tutto quello che era successo quando lui era stato fuori.
Tutto quello che aveva fatto la mamma per la casa. Mentre lui sorrideva in silenzio, e sembrava contento. E mostrava, alla penombra bluastra dello schermo, come fosse ancora possibile amarsi nonostante tutto. Senza un senso. E il tempo perso.
Amarsi lontani.
Mentre io mi sono ritrovato da solo a dare da mangiare a quel mostro muscoloso di Notte, pensando alla pancia morbida del mio vecchio fratello Spirito. Sempre con l’ansia di non rivederlo più. Aveva i suoi anni. E chissà per quanto lo avrei sognato di nuovo prima di seppellirlo vicino alle patate con un rituale inventato insieme agli altri cani, prima di sfiorarlo ancora. E la mamma anche. Con quell’infanzia spietata trascorsa. Come vecchie primavere. Come la matrioska di polvere e polmoni nella quale siamo rinchiusi.
Fra l’ansimare e lo sbavare il cane tirava a finire con una foga inaudita i croccantini della ciotola, senza prender fiato o gustarne uno, intanto che io lo guardavo e gli toccavo la testa. Mangiava più volentieri in compagnia, era sempre un cucciolo, lui. Lo diceva sempre Camelia.
Fuori c’era una pioggia sottile e nuvole spesse, un bene per le patate.
Sul telefono un messaggio della mamma diceva che era arrivata a casa, senza essere stata fermata dalla polizia. Si era trasformata di nuovo in un ammasso di lettere nere sopra uno schermo luminescente quadrato.
Ho pianto piano, senza un rumore, quando il cucciolo ha trangugiato l’ultimo boccone cercandone un altro. Io non lo ero più da un bel po’.

19/4/2020