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Mi sento un po’ come la Polonia nel settembre del 1939

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Giada Biaggi il 1 aprile 2020
Aggiornato il 5 maggio 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Non sapevo se fosse il coinquilino giusto; me lo sono trovata in casa circa un mese e mezzo fa. Capivo che c’era qualcosa che non andava in lui – aveva dei baffi strani, parlava una lingua simile al tedesco; ma dei fonemi che emetteva, sempre sputando un po’, più che il significato delle parole mi impressionò l’autorità e l’autorialità. Era autorevole, ma autorevole in maniera autoriale. Aveva deciso che dovevamo stare chiusi in casa perché il mondo là fuori era pericoloso; diceva che c’era un nemico invisibile e che io dovevo solo non uscire per proteggermi. Continuava a dire che dovevo eseguire gli ordini e non fare troppe domande; altrimenti non avrei trovato marito nella vita se avessi continuato a fare troppe domande.

Non c’era niente di progettuale nella nostra convivenza, dovevamo solo limitarci a conviverla. E io, appunto, non dovevo fare troppe domande.

Mi diceva che dovevo mangiare verdure, non praticare autoerotismo, smettere di fumare e bere; mi vietò di mettere minigonne, mi costrinse ad ascoltare Wagner tutto il giorno su Spotify e a guardare telegiornali. Bruciò la mia collezione di DVD; odiava il cinema. Tutto quello che faceva era dare ordini in quella lingua strana, forte, ricolma di vocaboli aulici; che anche se non avevo mai studiato, né sentito prima riuscivo a capire perfettamente; un po’ tipo Harry Potter con il serpentese. E vi dirò, trovavo questa sua lingua anche molto eccitante; era un dizionario erotico. Aveva un modo di parlare sempre eccessivamente formale, ossequioso direi, pieno di avverbi; sì, usava troppi avverbi. Continuava a dire che non stava facendo niente di male vietandomi di uscire, mi stava solo tutelando; ogni volta che scoppiavo in lacrime mi diceva che ero troppo emotiva, addirittura eccessiva – con il tempo mi diede anche dell’isterica.

Dapprima mi vietò di mettere lo zucchero nel caffè, poi mi vietò di berlo; poi me lo fece sostituire con il tè e alla fine mi vietò anche quello. Più mi criticava, più mi limitava, più mi umiliava; più mi piaceva. Mi innamorai di lui. Mi continuava a dire che ero molto bella, mi riempiva di complimenti e mi cucinava torte di mele squisite. Mi ripeteva anche, però, che era innamorato di sua moglie e che sua moglie era perdutamente innamorata di lui. C’era molta intesa intellettuale tra di noi. Amavamo parlare dei grandi filosofi tedeschi – Nietzsche era il nostro preferito. Una sera mi intrufolai in camera sua; indossavo solo un bikini rosa e gli lessi dei passi di Così Parlò Zarathustra. Lui si coccolò le sue parti intime, mi disse di continuare a leggere, non mi dovevo fermare; finché non raggiunse l’orgasmo. Poi si arrabbiò all’improvviso e mi disse di andare via; mi ordinò di coprirmi. Non lo toccai mai; anche se esisteva nella realtà era onirico. Il suo scopo nella vita era solo uno: farmi sfiorare il dionisiaco e subito dopo farmi sentire in colpa. Andai a letto tristissima, piansi tutta la notte. Era tutto molto tragico e romantico; in questo wagneriano.

Una Cavalcata delle Valchirie emotiva, travestita da arresti domiciliari: ecco cosa era diventata la mia vita.

La mattina dopo mi svegliai, dissi che non potevamo continuare così – che non poteva avermi stravolto la vita e poi comportarsi come se niente fosse. Parlai invano, parlai al nulla, perché lui se ne era andato via. E sapevo che se ne era andato via per sempre. Urlai fortissimo, in preda all’isterismo scesi per strada e continuai a urlare. Passeggiai lungo la Darsena, era bellissima. Prima del lockdown era un luogo che snobbavo; cavolo, realizzai che era davvero finito tutto. Milano era bellissima – era un segno di interpunzione che non avevano ancora lessicalizzato in nessuna lingua e usato in un testo che nessuno aveva ancora mai scritto in una maniera molto appropriata. Era arrivata l’estate; presi il 9 da Porta Genova direzione Stazione Centrale. Misi le cuffie, mi sentii finalmente libera di ascoltare gli 883. Partì Gli Anni, piansi. All’altezza di Via Col di Lana salì lui. Con lei. Feci di tutto per evitare il suo sguardo, ma i nostri occhi si incrociarono in maniera causalmente accidentale. Mi alzai di colpo, scesi.

Adesso sì, ero davvero nuovamente libera.