“Forse è iniziato tutto quando ho visto l’ultima scena de Le Conseguenze dell’Amore. Oppure quando a 6 anni mio babbo mi ha portata con lui a pescare a largo di Marina di Pietrasanta nonostante tutto minacciasse bufera, anzi forse quando sdraiata di notte sul sagrato di una chiesa alle Eolie ho visto la luce di Stromboli diffondersi sopra di me per un attimo, sotto al cielo già bassissimo.” così si muove nei suoi ricordi arcaici Bianca Peruzzi, la lighting designer dietro alle luci e atmosfere che dopo poche edizioni hanno già reso il festival parmense LOST iconico affianco alla sua location e alle scelte di direzione artistica quando le chiedo il primo momento in cui si ricorda di aver concepito la luce come uno strumento narrativo essenziale.
Conosco Bianca ormai da un po’ di anni, da quella volta in cui mi ha accompagnata a fare foto per un editoriale sul mio cibo preferito – i tramezzini – a Venezia per un noto magazine che ora in Italia non esiste più. Da lì affettivamente non ci siamo più lasciate. Al tempo vivevamo entrambe a Bologna, lei dividendosi fra lì e la Germania. Poi altre città nel mezzo per entrambe, i videoclip e la musica per entrambe, lei come regista e io come editor. Amare e capire la luce invece, sicuramente è sempre stata più roba sua.
Questa intervista assomiglia a una delle lunghissime conversazioni che abbiamo nei vari posti di Italia diversi da Milano in cui ci succede di incontrarci, ma solo ora, dopo la sua ultima fatica per dare un altro tocco ormai inconfondibilmente autoriale al design delle luci del palco di LOST, parliamo per la prima volta approfonditamente di . “La luce è uno sviluppo naturale di un percorso pieno di vie che si incontrano e si scontrano in continuazione.” mi dice, ora che il suo percorso è professionalmente orientato sul lighting design, ma “il lavoro luminoso è uno spettro di un’esplorazione più ampia, che si interseca ad altri linguaggi per raccontare o intervenire in contesti in cui soggetti animati o inanimati attraversano spazi per mutarli in un tempo finito, che spesso è quello dello spettacolo.” Sicuramente è difficile immaginare una mansione legata a uno storytelling senza una rete variegata di significati che la costruisce, allo stesso tempo è importante saper isolare e comprendere le dinamiche di una professione in equilibrio fra tecnicismo specifico e autorialità.

Raccontami l’inizio del tuo rapporto con il lighting design e l’esperienza che ti ha segnata da quel punto di vista nel farti prendere quella direzione artistica, in cui trovare delle reference – In Italia soprattutto – non è così banale.
Il mio rapporto – dichiarato – con la luce è nato mentre studiavo cinema e scienze applicate ad Amburgo, in un momento in cui stavo portando la mia ricerca intorno all’immagine e allo storytelling verso una forma più essenziale, spogliata dalla centralità delle parole. Svuotando le immagini dal contenuto verbale, è rimasta la materia prima: quella luminosa.
Nel pratico, all’inizio di questo percorso, smontavo e soprattutto spaccavo televisori a tubo catodico studiando cosa succedeva ogni volta che io, un generatore d’onda o un evento magnetico intervenivamo nel processo di trasmissione del segnale. Inizialmente venivano fuori solo dei glitch poco interessanti, ma poi, complicando i sistemi di sintesi video, la ricerca ha iniziato a prendere una forma magica: l’interruzione del messaggio trasformava l’immagine lineare in forme inaspettate e sempre leggermente diverse, oggetti luminosi, in cui la luce era l’unico spettacolo da osservare. C’era qualcosa di estremamente mistico e inspiegabile in quelle forme luminose, mi è sembrato di conoscerle da sempre e di comprendere per la prima volta un alfabeto nuovo e semplicissimo.
Le prime volte in cui ho tirato fuori queste scoperte luminose dagli schermi e le ho portate in spazi fisici sono state forse le più significative, al fianco di Valerio Maiolo che al tempo portava avanti una ricerca sonora sulla sintesi vocale. La vera illuminazione è sicuramente arrivata durante un lavoro fatto con luia raum (aka XING), a Bologna, “Eternal Source of Light, Voice and Space”. La performance era quasi uno sleeping concert in cui il pubblico poteva muoversi, entrare ed uscire a piacimento diventando attore in scena. Mentre si spargeva, disteso, seduto o in piedi, da ogni lato suoni e luci continuavano a cambiare lo stato architettonico e fonico dello spazio. Mentre guardavo ed eseguivo questo spettacolo totale, ho visto come la luce, coscientemente inserita nello spazio per trasformarlo, crea un incanto temporaneo, una sospensione dei riferimenti fisici conosciuti.
Durante l’atto luminoso, tutto entra in uno stato fragile, in divenire, che esiste visivamente solo per un tempo definito, sia per chi ne costruisce la drammaturgia che per chi la osserva. Poi la luce si spegne e scompare
Tutto torna com’era – muri bianchi, sedie, facce e oggetti riconoscibili, che tornano a fare quello che facevano – senza lasciare un segno fisicamente tangibile, ma una memoria persistente, che si manifesta maggiormente attraverso l’assenza.
Come è stato portare questo approccio narrativo sul palco di un festival di musica elettronica e sperimentale come il LOST e interpretarlo con quegli strumenti? Era la prima volta che ti approcciavi a un contesto di quel tipo?
È stato eccezionale. Era il secondo anno che curavo il lighting design dell’intero festival e prima di LOST ho curato per diverse edizioni la parte luminosa di Ombre Lunghe, un festival bellissimo che succede ormai da anni ad ateliersi a Bologna. Quest’anno Luca (Giudici, il direttore artistico di LOST) ha avuto l’ottima intuizione di mettermi in contatto con gli artisti del main stage in anticipo, cosa che mi ha permesso di creare delle strutture drammaturgiche specifiche che poi ho decostruito e ricostruito live, improvvisando via via con l’esecuzione della scaletta di ogni artista. Come l’anno prima, e come ogni volta che sono alla console luci, entro in una sorta di trance (completamente sobria, al massimo 1 o 2 redbull) in cui so esattamente cosa devo fare, come se avessi provato per settimane con ognuno degli artisti. In quel momento succede qualcosa di inspiegabile in cui la luce diventa semplicemente un’estensione di quello che sento e penso: è come se fossi sul palco ad intendermi con chi suona e a rendere indietro la mia interpretazione di quello che sta accadendo.
Abbiamo saputo di dover annullare Griend il giorno stesso, eppure la sinergia perfetta musica-performance-luci che si è creata durante lo show di Rainy Miller – che era già a Parma ed ha deciso di esibirsi comunque, in solo – ha trasformato quello che poteva essere un grande live show in una storia da guardare e ascoltare, con inizio e fine, fatta di picchi e discese, e sicuramente con un finale aperto. Sarà che ho deciso di tenere quel trick che avevo proposto a Griend in cui Rainy ad un certo punto va in fumo (è successo veramente), sarà che il suo album ‘Joseph, What Have You Done?’ è nelle mie orecchie da quando è uscito, sarà che come per questo live, ho spesso la fortuna di lavorare per artiste e artisti che stimo e di cui conosco molto bene l’operato sonoro e alla fine mi ritrovo spesso a lavorare quasi ad occhi chiusi, cantando e piangendo ritrovo spesso a lavorare quasi ad occhi chiusi, cantando con loro.
Quali sono state le differenze di approccio nel lavorare all’estero e in Italia?
Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di lavorare in contesti molto diversi, sia in Italia che all’estero, attraversando progetti fatti da team molto eterogenei per provenienze, ruoli e skills. Per questo, mi risulta difficile individuare un approccio “nazionale”, perché in ogni produzione entrano in gioco le dinamiche del gruppo e del settore che hanno un impatto rilevante sull’approccio al lavoro della singola persona.
Dove ho potuto, ho sempre cercato di far convivere più linguaggi con lo scopo di creare “incanti finiti” in cui qualsiasi elemento che partecipi a quel momento in maniera attiva o passiva è un attore che influenza il risultato finale dell’esperienza. Per fare questo, lavorare con la luce non si limita alla sola parte di ricerca delle fixtures, delle posizioni in cui montarle e dei calcoli fotometrici: è soprattutto capire la natura dello spazio, chi lo attraverserà e in che possibili modalità lo farà, lo scambio con chi come me interverrà nello stravolgerlo in maniera attiva e come tutto questo verrà visto dopo aver cessato di esistere IRL (aka su internet). Il dedicare tanto tempo ad immaginare come trasformare lo spazio attraverso la drammaturgia luminosa, allo sviluppo della luce nel tempo, penso sia l’elemento che contraddistingue il mio approccio ovunque operi.
Fuori dall’Italia ho trovato molto più riconoscimento per figure ibride come la mia, che attraversano le varie fasi del processo lavorativo, da quelle tecniche a quelle più creative, e che lo intrecciano con aspetti di storytelling radicati in un interesse performativo di ogni elemento. Astraendo la figura del lighting designer dal contesto specifico del settore in cui opera, posso dire che, soprattutto tra Germania, Francia e Inghilterra, ho incontrato colleghe e colleghi che hanno scelto la luce come linguaggio principale ma che nella produzione dei loro lavori includono contaminazioni da altri ambiti tipo narrativa, teatro, fotografia, robotica, danza, machine learning, scenografia e addirittura studi di biologia. La maggior parte ha avuto una formazione da autodidatta e non unicamente tecnica, magari lavorando in ambienti sperimentali dove la collaborazione tra reparti è continua e la costruzione di un’identità professionale non è incatenata alla definizione standard del mestiere. Al contrario, in Italia, in questo ambito scarseggiano luoghi strutturati dove crescere professionalmente e, allo stesso tempo, sviluppare la propria ricerca, ibrida o non ibrida che sia.
In alcuni paesi dove ho raccolto esperienze, tipo Norvegia, Germania o Inghilterra non si può ignorare l’impatto dei sistemi di finanziamento culturale e di retribuzione che i vari settori lavorativi in cui fare lighting design offrono. Mi vengono in mente realtà come Kampnagel o ICA, ma anche il confronto tra la mia esperienza all’Accademia di Bologna dove bisognava comprarsi la propria camera o qualsiasi altro mezzo per fare gli esami, e quella all’Università di Scienze Applicate di Amburgo, dove un intero piano era dedicato a studios di illuminotecnica e sound design equipaggiatissimi. Non penso che nessuno di questi sistemi sia perfetto o da idealizzare, anzi, molte cose stanno cambiando, ma è chiaro che dove esistono ancora dei sostegni economici concreti, e si valorizza il lavoro per la natura che sceglie di avere, è più facile incontrare lighting designers che riescono a sviluppare approcci e ricerche indipendenti con una certa continuità. Questo influenza anche il modo in cui viene immaginata e sostenuta una pratica che vuole spaziare tra molti linguaggi, che non si esaurisce nella sola funzione lavorativa, come molti pensano, ma che spesso attraversa i confini tra arte, tecnica e pensiero critico.
Dalla tua esperienza accumulata ci sono dei settori culturali che investono sul lighting design più rispetto ad altri?
Senza scelte consapevoli di luce o buio, la scena non esiste – a meno che non sia volutamente lasciata al caso. Da un punto di vista creativo, tutti i settori culturali tipo danza, musica, teatro e moda investono sul lighting design.È una questione di visione prospettica sul lungo termine perché l’intervento luminoso è una parte necessaria di qualsiasi spettacolo: ne mostra le dinamiche più sottili e le macrostrutture; le accentua e poi le riporta con sé nel buio.
Un lato della medaglia di questo discorso è che i festival, gli eventi, le produzioni e qualsiasi tipo di spettacolo ha bisogno di nutrire la propria identità estetica su Internet, di conseguenza ognuno cerca di trovare un modo di curare l’aspetto visivo degli spazi che attraversa.
Dall’altra parte penso che proprio in opposizione a quanto sui social media tutto si sia esaurito sulla ripetitività della rappresentazione del sé, nella vita reale sta ricrescendo un bisogno diffuso di esperienze collettive forti e coinvolgenti. In entrambi i casi, l’esperienza della luce è un elemento cruciale. Penso che in molti stiano piano piano raggiungendo questa consapevolezza.
A livello produttivo, invece, l’investimento economico è sempre una variabile determinante. Essendo legato quasi esclusivamente all’uso di una data quantità di materiale tecnico, ogni progetto di lighting ha bisogno di un supporto economico più o meno consistente. Più cresce la dimensione del progetto, più è probabile che la disponibilità ad investire sul lighting design sia alta, indipendentemente dal settore. Nella moda, in particolare nei progetti che ho fatto nella prima metà di quest’anno, ho avuto accesso a risorse che mi hanno permesso di realizzare disegni luci con pochissimi compromessi e tagli, per cui sono riuscita ad ottenere risultati veramente simili ai disegni e ai render fatti in fase preparatoria. In altri contesti, invece, ho dovuto ridimensionare il progetto iniziale, a volte adattandomi all’attrezzatura tecnica disponibile nei teatri o nelle venue e a volte semplificando radicalmente l’intero disegno.
Credi che quello del lighting design sia un contesto in crescita o rimane sempre una nicchia legata alla disponibilità di investimenti? C’è un modo per renderlo più economicamente sostenibile rispetto a quanto poco lo sembra da fuori? E anche: le persone che se ne occupano quanto sono legate a una dimensione tecnica e quanto artistica?
Che sia in crescita me lo auguro. In realtà gli interventi di lighting design sono già ovunque: il pubblico vede e sente la luce sempre, a volte non se la sa spiegare e spesso la percepisce soprattutto dopo che si è spenta.
La questione della sostenibilità economica è complessa, perché dipende da tanti fattori. Alcuni progetti molto grandi e ambiziosi si riescono a realizzare con risorse economiche minime o contenute grazie al supporto di ognuna delle persone che ci lavora. Ma succede raramente, e spesso, in questi casi, sono proprio le risorse fisiche e mentali di chi ha sposato il progetto ad essere messe a rischio. Per questo, l’unica strada davvero percorribile per rendere i progetti luminosi economicamente sostenibili è spesso quella della riduzione.
Per creare l’incanto di cui parlavo prima, può bastare partire dal buio e aggiungere poco altro. Non serve un palco con cento luci montate, nemmeno in uno spazio molto esteso.
In pratiche come questa, in cui la tecnica è parte dell’opera, la sostenibilità si può trovare mettendo a fuoco l’essenza del progetto, capendo quale è il fine dell’esperienza spaziale che si vuole rendere e passando ore ed ore a immaginare soluzioni leggere, ingegnose, capaci di rendere semplici sistemi apparentemente molto complessi e costosi. Tutto può essere purificato dalla protezione che un sistema tecnico strabiliante e costoso sembrerebbe offrire. Davvero, a volte un solo fascio di luce che attraversa una stanza buia, la percorre da lato a lato apparendo e scomparendo, può stravolgere l’intera esperienza spaziale. Resta comunque il fatto che la figura del lighting designer è ancora poco visibile e parte di una nicchia per molti misteriosa. Spesso il pubblico la fonde completamente con chi si occupa tecnicamente dell’allestimento. E’ un lavoro che, volendosi manifestare attraverso la luce, finisce spesso per restare letteralmente nell’ombra, anche quando il contributo creativo e narrativo della luce nello spazio cambia radicalmente l’esperienza percepita da chi lo attraversa. Credo che più il lighting design verrà conosciuto per il suo apporto artistico, curatoriale, narrativo, e non solo tecnico, più sarà invitante per chi si immagina di poter usare la luce come linguaggio creativo. E’ vero che prima di poter usare il linguaggio in maniera creativa si deve imparare a navigare tra un’enorme mole di nozioni su software ed hardware, calcoli, macchine, rigging, fisica, universi dmx… sicuramente all’inizio può essere abbastanza scoraggiante ma prometto che (non) c’è una fine: è un processo di crescita continuo in cui la bellezza sta nel continuare a sbagliare e imparare da ogni macchina del fumo bruciata e da ogni strobo che si comporta in maniera incontrollata.
E come trovi Milano da questo punto di vista sul settore? E a questo punto, oltre che da lavoratrice, ora che ci vivi anche dal punto di vista culturale come fruitrice.
Milano la guardo spesso da dietro le quinte: penso sia un punto di osservazione privilegiato per cogliere le micro e macro dinamiche che si sviluppano nel momento di passaggio tra la creazione e la ricezione di quello che viene proposto a livello culturale. Nello specifico, nel tentativo di creare esperienze da attraversare, mi interrogo molto sul percorso di chi attraverserà. Nonostante la maggior parte dei lavori che faccio avvenga in strutture settorialmente connotate con un pubblico poco vario, cerco sempre di contribuire con una narrazione luminosa e spaziale che possa spezzare le coordinate identitarie dei luoghi. Penso che sfidare il pubblico a reinterpretare gli spazi, anche solo per un tempo limitato, possa essere una chiave per sradicare un po’ la tendenza “turistica” e passiva che noto nella fruizione milanese e portarla invece ad una dimensione più partecipata.
Da fruitrice invece, i posti in cui mi trovo a mio agio sono molto pochi. Sto bene dove non devo tirare fuori il telefono per ore – proprio per contrastare quella dinamica “turistica” – spesso al cinema, o in spazi piccoli in cui ti puoi sedere a pochi metri da chi suona sul palco.
C’è un posto in cui ti piacerebbe vivere in questo momento?
Decisamente non un posto solo, mi piace stare tra due città (almeno). Se prima erano Amburgo e Bologna, al momento queste città sono Milano e Londra. Mentre a Londra sento di stare in mezzo alla vita che accade ed avere accesso ad ambienti culturali estremamente stimolanti e vari, Milano la vivo come se fosse il mio studio a cielo aperto e dovunque vada sento di riuscire ad avere sempre un alto livello di concentrazione e produttività, quasi ascetiche a volte. Tra qualche anno, immagino di trovare occasioni per vivere in più luoghi, spostandomi ogni qualche mese. Al momento, mi sto dedicando a studi della luce legati ai fenomeni naturali, quindi è probabile che andrò in osservazione di cose che non ho ancora mai visto. Tipo le notti estive nel nord europa o i fulmini venezuelani.
Anche a me piacerebbe vedere i fulmini venezuelani prima o poi. Sarà nostra premura aprire una open call se per tale occasione Bianca sarà alla ricerca di qualche assistente senza esperienza pregressa e io avrò altro da fare.