Domenica sera, piazzale Loreto, sono tornato a Milano dopo tre giorni di fango e pioggia, io e Claudio, andiamo a mangiare un kebab, fine.
Come in ogni storia che si rispetti, per ogni fine c’è sempre un inizio.
Venerdì mattina, sette e mezza, sono sveglio, reduce dall’open bar della Boiler Room. Ho una colazione importantissima in Porta Venezia, mi alzo e vado a prendere il caffè al sapore di gin tonic.
Poi ho la revisione delle fotografie in accademia, breve visita in studio per cambiare dei fondali e subito dopo acquisto della tenda.
Sono le 19 e io sto per collassare.
Vado a prendere la navetta a Cadorna, lì trovo Claudio, un ragazzo australiano che avevo conosciuto la sera prima, fa il volontario al festival e da ora in poi sarà la mia spalla principale.
Philippe Daverio sostiene che Villa Arconati sia un posto incantato, in effetti non ha tutti i torti: appena arrivo rimango incantato dalla facciata barocca, di colpo mi passa tutta la stanchezza, non vedo l’ora di entrare, piantare la mia tenda e tornare indietro nel tempo: “Ciao Alessandro, lo senti l’odore dell’erba umida? Quello che ti ha accompagnato per tanti anni, è lui”. Improvvisamente torno indietro nel tempo, quando andavo in interrail e giravo solo per campeggi estivi.
È buio, ho già perso gli show di Hamid Drake e Charles Cohen, sta per iniziare Bochum Welt, lascio il campeggio e giro l’angolo: avete mai visto il video di Erol Alkan “A Hold on Love”?
Ecco, di colpo mi ritrovo proiettato in un’altra dimensione, fatta di musica, luci, alberi maestosi e strutture in legno. Bevo un paio di gin tonic e mi faccio subito prendere dal set analogico di Bochum Welt, l’Aphex Twin italiano. Subito dopo tocca a Gerard Hanson aka Convextion che, a colpi di techno, prepara il mio personalissimo viaggio notturno, alla cui guida si metterà subito dopo Marco Shuttle.
Quando arriva il suo momento, ho già fatto un paio di viaggi al bar, dove tra consumazioni scroccate, gettoni smarriti, promesse di recensioni che non farò mai, bottigliette e bicchieri vari ed eventuali, forse ho bevuto troppo, così il suo set visionario futuristico mi manda definitivamente in un buco/spazio temporale dal quale uscirò solo grazie all’aiuto delle disponibilissime Francesca e Irene (“scusa, potresti collassare qualche metro più avanti?”).
Sabato mattina, mi mancano parti di serata, mi sveglio sudatissimo, poche ore di sonno, devo fare una doccia. Le docce sono accanto al campeggio, la cosa divertente è che sono semitrasparenti, tu guardi quelli che si lavano e subito dopo, col tuo ingresso, gli altri si godranno lo spettacolo. Mi denudo anch’io, ho deciso di vivere in simbiosi con natura e musica, così mi lavo e a cullare il mio risveglio ci pensa il set meditativo di Gea Brown: sono le dieci di mattina, sono già stanco, ma felice. La più bella e ghiacciata della mia vita
Ci metto un paio d’ore a riprendermi, faccio amicizia con i miei vicini di tenda (quasi tutti stranieri), nel frattempo suonano Maurizio Abate, Rawmance e Valerio Tricoli (presentato dalla rassegna S/N/V), nel bosco partono i primi talk e la pioggia accompagna la conversazione tra Keith Fullerton e Katie Gibbon di The Wire. Appena il cielo si schiarisce mi appare uno Slimer di Terracotta. No, non sono ancora allucinazioni, è il workshop di ceramica curato da Rio Grande e lo Slimer verrà cotto in un forno realizzato live e continuamente alimentato da legna e carta.
Torno verso il main stage, dove Rabih Beaini ha appena rapito il pubblico, portandolo verso nuovi orizzonti con il suo set a base di suoni orientali. In questo momento, inizio a capire cosa sia realmente Terraforma: è un’altra dimensione, una piccola Woodstock di musica elettronica, tutto a pochi km dal centro di Milano. A confermare le mie idee, ci pensano i Senyawa, duo indonesiano che riesce a unire le tradizioni dell’isola di Java e la musica sperimentale, creando così un suono definito “out of this world“. Rully Shabara se ne frega della pioggia, si toglie la maglietta e si adegua al mood del festival, il risultato è un live vigoroso, a metà tra il punk e il neotribal, il pubblico non può fare altro che applaudire.
Quando tocca al live elettroacustico di Keith Fullerton Withman è ora di cena, abbandono lo show dopo un po’, è un peccato, lo so, ma il mio fisico ha bisogno di energie per affrontare la notte. Da Milano e dintorni sono arrivati rinforzi e il boschetto si è riempito a dovere, è pieno e nell’aria continua a esserci qualcosa di magico: non è più un festival o una serata di musica elettronica, ormai stiamo prendendo parte a un rito collettivo, un tributo a Madre Natura. Di questo se ne rende conto anche Robert Lippok che si inventa “The sound of Trees” picchiando sulla drum machine con dei pezzi di legno, confermando (come se ce ne fosse ancora bisogno) di essere ancora uno dei migliori rappresentanti dell’avanguardia tedesca.
Subito dopo ci spostiamo verso l’interno del bosco, dove il collettivo milanese Otolab presenta Punto Zero, una performance sensoriale fatta di luci e suoni in movimento e in dialogo tra di loro. Gli spettatori entrano all’interno di questo spazio circolare fatto di legno, otto speaker e 24 luci a led, dove le percezioni sensoriali si deformano, creando così una sorta di ipnosi. L’impatto è incredibile, forse chi mi leggerà penserà che io sia impazzito, o che io abbia preso chissà quale sostanza, ma stare dentro quel cerchio è stato come partecipare a una chiamata verso nuove forme di vita o altre dimensioni parallele.
Punto Zero at Macao (audio visual testing) from otolab on Vimeo.
Terminata la “seduta spiritica“, arriva il momento più atteso: signore e signori, Donato Dozzy & Nuel presentano “Aquaplano”. Mai nome fu più azzeccato, perché i due eroi di casa nostra vincono il premio di miglior set della tre giorni di pioggia. The Aquaplano Sessions è la colonna sonora per l’immersione del sabato sera, Dozzy e Nuel, a colpi di techno, si mettono alla guida del viaggio verso le introspezioni. La situazione è incredibile, la musica, il pubblico e la foresta sono diventati una cosa sola e i volti dei partecipanti al “rito notturno” sono tutti rilassati e sorridenti, tanto che una tipa mi chiede se può dormire nella mia tenda.
Domenica, il giorno del signore. Svegliatosi evidentemente con la luna storta, l’altissimo decide di riversare sul povero Terraforma ettolitri di acqua. Riusciamo comunque ad assistere ai set di Turbojazz e Volcov (entrambi ottimi) le persone, stoicamente resistono e continuano a ballare non curanti della pioggia e del fango, fino a quando l’impianto non decide di mollare il colpo e tirare l’ultimo respiro.
Qui un ragazzo inglese, epicamente, decide di tirare fuori una chitarra e di mettere su un piccolo spettacolo a base di tarallucci e gin, mi ero ripromesso che almeno di domenica non avrei bevuto e invece mi ritrovo a fare colazione con un maledettissimo distillato.
Tra i volti dei terraformers inizia ad apparire l’incertezza, la pioggia scorre incessante, qualcuno si scoraggia e inizia a impacchettare tutto. Questi sono i momenti in cui si vedono le grandi famiglie unite, perché invece Terraforma non si scoraggia affatto: prima sfama i propri ospiti come dei figli offrendo panini gratis a tutti i coraggiosi della domenica (bella, quando si magna gratis io sono sempre in prima fila), poi con un colpo di scena arriva l’annuncio: Terraforma continua sotto il porticato della villa, salta solo il talk tra il Damir nazionale e Robert Lippok (sarà poi registrato), ma cara pioggia, Terraforma nun te teme!
In poco tempo i tecnici, montano una consolle e un impianto di fortuna, la festa continua e io faccio in tempo a bere un paio di birrette alla salute del festival.
Il primo a inaugurare la nuova venue a colpi di dub è Mark Ernestus, il produttore tedesco affetto da mal d’Africa, seguito a ruota dagli Itinerant Dubs. Nel frattempo come se fossero lumache, spuntano gli stand di cibo e alcol, la pioggia da un attimo di tregua e io ne approfitto per tornare al campeggio (ormai diventato la sezione distaccata di Glastonbury) e smontare la mia tenda infangata.
Torno sotto i portici ed è arrivato il momento della mia corregionale: Paquita Gordon. La giovane dj di Salina non sbaglia un colpo, tira fuori dei vinili galattici, mandandoci definitivamente in estasi al tramonto quando tira fuori dalla sua magic box “Sandcastles” di Ferrer & Sydenham remixata da Pete Heller. Che gran peccato non aver assistito al suo set nella foresta.
Tutto finito? No, perché da Napoli centrale era appena arrivato un carico di musicisti, i 291out. I 291out, sono un gruppo incredibile, un incontro tra jazz, funk, psichedelica e rock, tutto circondato da suggestioni elettroniche e rimandi a film poliziotteschi anni 60. Insomma, una bomba.
I ragazzi, eroicamente, si ritagliano un angolino dietro la consolle, mentre i tecnici ormai idoli indiscussi della serata sistemano il tutto per il soundcheck. Paquita finisce, tocca a loro.
Il tempo di superare un paio di problemi tecnici e un live incredibile, la musica prende tutti, se potessero ballerebbero anche le colonne del portico e tra il pubblico a fare il tifo per loro c’è anche Riccio, venuto apposta da Bologna (dove suoneranno insieme al Cavaticcio).
L’atmosfera è magica. Il mio amico Slimer nel parco ormai è solido e sarà una delle sculture d’arte pubblica che andranno a riqualificare tutto il parco della Villa. Nessuno vuole smettere di ballare, volano baci, abbracci e birrette (una per me, grazie). Come vi avevo annunciato, per ogni inizio che si rispetti, purtroppo, c’è sempre una fine, così arriva mestamente il momento degli applausi più che meritati.
Grazie Terraforma, perchè son venuto da solo, ma solo non son mai stato.
Ci vediamo l’anno prossimo.