Cresce l’attesa per il Vesuvio Soundsystem, l’evento musicale presentato dalla Red Bull Music Academy e previsto il 20 maggio, nella cornice offerta dall’Arenile di Bagnoli. Se la direzione artistica di Lucariello poteva lasciar prevedere un predominio del rap e dell’hip hop in cartellone, è invece l’eterogeneità dell’offerta a saltare all’occhio tra i nomi che si alterneranno sul palco. Oltre al padrone di casa, la serata, che sarà condotta da Clementino, vedrà avvicendarsi sul palco l’hip hop del marsigliese di origini napoletane Akhenaton e il post-rock cinematico dei Mokadelic, autori della colonna sonora della serie Gomorra.
Ma ci sarà spazio anche per il turntablist Ty1, Ivan Granatino, i rapper Ntò, Luchè, Fuossera, Enzo Dong e Rocco Hunt, supportati dalla resident band del celebre beatmaker D-Ross, e per chi ha fatto la storia della musica popolare e classica napoletana, come Franco Ricciardi e Pino Mauro. Ed è proprio a lui, uno degli ultimi interpreti della sceneggiata napoletana, che è affidato il compito simbolico di riannodare i fili con un passato che ormai risuona solo sui giradischi dei nonni e in alcuni vicoli di Napoli.
Nato nella Villaricca di Sergio Bruni, ha portato le storie di strada, dei bordelli e della malavita a teatro ed è stato l’unico vero rivale di Mario Merola negli anni 70. Per un errore giudiziario finisce in carcere nell”82 e una volta fuori, per lui che era apprezzato in Rai e aveva conosciuto il successo anche in America, cambia tutto.
Le occasioni di ribalta si diradano, ma non lo allontanano dalla gente, quella semplice, di cui la sceneggiata ha fatto da interprete e nelle cui trame «c’è la vita reale, non nascosta: la vita aperta» per dirlo con le sue parole. Questo sentimento di vicinanza, di somiglianza, che intercorre fra artista e contesto, è una caratteristica della musica popolare a ogni latitudine. È una condizione indispensabile che si rileva esaltata proprio quando le difficoltà sono evidenti e condivise, e le difficoltà nel tempo, a Napoli come nella sua provincia, spesso hanno cambiato solo il nome – a volte nemmeno quello – e il relativo dato statistico.
Se nella sceneggiata ci sono un copione amoroso e un costante dialogo fra giustizia e Legge, alla fine degli anni 70 lo sguardo dei cantautori si rivolge verso lo Stato e “il padrone”, complici di uno scollamento fra chi lavora o vive il disagio della disoccupazione, e chi accentra il potere e mal distribuisce le ricchezze. L’humus, i fattori storici o una semplice coincidenza, sincronizzano nel 1977 l’uscita di due dischi diversi, uno più diretto, l’altro allegorico, che consacrano due artisti a portavoce di una generazione: Terra mia di Pino Daniele e Burattino senza fili di Edoardo Bennato. Le umili origini e un’appartenenza ideologica più marcata influenzavano i testi che erano i manifesti cui si aggrappavano i ragazzi che trent’anni fa riempivano gli stadi. Un percorso, il loro, che come spesso accade è andato via via perdendo vigore fino a sfumare in un pop meno impegnato, fuori tempo massimo. Un verso come «Ed alzasse la mano chi non ha futuro \ Chi lavora sempre ma non sta sicuro» avreste potuto trovarlo in uno di questi dischi, e invece è un estratto dell’ultimo brano di successo del salernitano Rocco Hunt, Wake Up.
Poco più che ventenne, il rapper ha abituato i suoi ascoltatori alle invettive e agli slogan motivazionali sin dai primi mixtape, quando la fetta di mondo su cui orientava il suo “flow” era il rione popolare di Pastena. Poi sono arrivati i primi duetti con Clementino e ‘Nto contenuti nel secondo mixtape Spiraglio di periferia a convincere la Sony sulla genuinità del ragazzo (e del prodotto). Il successo del primo disco, Poeta urbano, fa da ponte fra l’underground e Sanremo. Questa fama di portata nazionale, tiene a precisare lo stesso Hunt, non lo ha cambiato, proprio perché continua a sentirsi legato al cordone che lo riporta indietro a ciò di cui erano fatte le sue giornate prima dell’arrivo delle major. Ai ragazzi di periferia, a cavalcioni, sui loro motorini spenti, mattina e sera, più o meno coscienti di essere nati nel posto sbagliato e che forse non siano stati loro ad aver abbandonato la scuola – come fa lo stesso Rocco prima di diplomarsi, per cercare il suo futuro -, ma il contrario. Quei ragazzi, e non solo, sono ora il suo pubblico, coinvolti loro malgrado in una lotta per la sopravvivenza, accattivati da un rap contaminato da elementi ultrapop, da storie e trame armoniche che flirtano con la musica neomelodica, rafforzandone l’impatto e compattando fan di generi diversi.
Il tempo ha il suo peso e ogni decennio ha un suo “arcinemico”, che la musica d’impegno sociale prova a stigmatizzare sensibilizzando e seminando coscienze più pulite. Il centro sociale è stato, e in parte è ancora, un luogo di confronto e ricognizione di idee. A Napoli, per almeno un ventennio, l’Officina 99 ha rappresentato il quartier generale di chi dissente e si informa, con gli occhi non solo alla politica interna, ma anche alle rivolte arabe – sostenendo l’Intifada palestinese – e centroamericane, con la figura del Subcomandante Marcos a svettare su tutte. Ed è proprio in quello stabile nel pieno centro di Napoli che nascono i 99 Posse, una band, per meglio dire un collettivo, che fra il ’91 e il 2000 si è spinta più avanti di tutte. Con un coraggio ravvisabile non solo nei testi, specchio di un conflitto contro ogni forma di sopruso, i 99 Posse rappavano su una musica che non finiva mai in secondo piano. Le contaminazioni, nella loro formazione di maggior successo trainata dal raggamuffin rap di “O’ Zulù” (Luca Persico), andavano dai campionamenti e dai tappeti dub di Marco Messina al jazz delle incursioni vocali di Meg, per diventare qualcosa di concretamente esportabile.
Inevitabilmente, la radicalità di certi testi e l’impegno non hanno reso la vita semplice e in più di un caso i loro concerti sono stati annullati perché “socialmente pericolosi”. La dipendenza dalle droghe di O’Zulù e il cambio di formazione ha parzialmente interrotto quel momento magico dal punto di vista espressivo, vissuto in pieno berlusconismo. Ma è di questi giorni l’uscita del nuovo disco Il tempo. Le parole. Il suono, che vede proprio la collaborazione di Rocco Hunt («Rocchino mi ricorda noi alla sua età – ha confidato O’Zulù al “Corriere della Sera” – ha avuto il coraggio di portare un messaggio sociale a Sanremo ed è stato bollato») e di un altro artista, che vive proprio negli ultimi anni una nuova, intensa fioritura: Enzo Avitabile.
Nato nel ’55 a Marianella, un quartiere nella zona Nord di Napoli, poco più che ventenne comincia il giro di collaborazioni, contribuendo col suo sassofono alle registrazioni dei primi album di Pino Daniele e al concept di Bennato Sono solo canzonette. Due anni più tardi esordisce con un disco a suo nome, che inaugura un decennio che lo vedrà affermarsi sempre più da solista e che lo porterà a essere l’unico musicista italiano ad aver mai affiancato James Brown su un palco.
La sintonia con Daniele andava spesso oltre lo stage e la sala d’incisione e, come lui, Avitabile è stato un innovatore, soprattutto nel lavoro sulla lingua napoletana, alla quale ha provato a dare nuovi terreni da battere. Dotato di un animo dissidente, che lo porta a un parziale blackout nella metà degli anni 90, quando la EMI lo licenzia per aver rifiutato una partecipazione a Sanremo, riprende presto il suo lavoro di ricerca, che sfocia in vera e propria etno-musicologia (di cui è stato anche professore all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli).
Dopo una serie di album preparatori, il 2012 è l’anno in cui Black Tarantella vede la luce. Profondamente influenzato dalla musica africana, il disco si distingue per la spiritualità e la crudezza con cui vengono trattati temi sociali, che la voce di Avitabile racconta con precisione e sincerità. Scenari di guerra si alternano a istantanee lucide sulle forme di sfruttamento, con una lingua, il napoletano, che si fa rete da pesca efficace, di mare in mare, dal porto di Napoli a quello di Odessa, o Rabat. Il brano che forse più di tutti unisce le qualità appena descritte è Gerardo nuvola e’povere, la storia amara di un operaio di Maddaloni, in provincia di Caserta, che emigra al Nord con la speranza di un lavoro e che, come tantissimi operai ogni anno, proprio di lavoro muore. Impreziosito dalla presenza di Francesco Guccini, che scrive e canta la metà del testo in modenese, il brano è anche un viaggio nella lingua e nei dialetti. Non è un caso l’album vinca poi il premio Tenco come miglior disco in dialetto del 2012 e la canzone il Premio Amnesty Italia.
Ma quello con Guccini non è l’unico featuring del disco. Fra i vari artisti internazionali, c’è spazio anche per un gruppo rap di Marianella, legato ad Avitabile anche da un fattore di sangue. Parliamo di Antonio “‘Ntò” Riccardi, nipote di Enzo, che con Luca “Luchè” Imprudente, all’epoca di Black Tarantella componeva, prima dello scioglimento nel 2012, i Co’sang. Lo scenario che fa da sfondo alla loro “poesia cruda” è l’area Nord di Napoli, le vicine Secondigliano e Scampia, mediaticamente assediate dalla metà degli anni 00, ovvero dai tempi della recrudescenza della faida di camorra.
Fra i quartieri col più alto tasso di disoccupazione d’Italia così come di giovani morti in conflitti a fuoco d’Europa, non serve molta intuizione per dedurre il corto circuito di contraddizioni che divora anche questa periferia napoletana. La camorra si è sostituita da anni allo Stato, ha approfittato del degrado per fare di questi quartieri poli internazionali del traffico di stupefacenti. I Co’Sang, letteralmente “col sangue”, lasciano intendere già dal loro nome il tipo di moneta con cui spesso si è costretti a pagare nelle storie che raccontano. Quindici anni di attività insieme e due album in studio all’attivo. Da Chi more pe’mme del 2006, che ha fra le sue tracce il singolo di successo Int’o rione, a Vita bona, che si accende nel flusso rancoroso di Mumento d’onestà, per poi spegnersi in quello più speranzoso della titletrack.
L’approccio alla scrittura, quasi documentaristico, è costato loro qualche critica per un atteggiamento che solo molto superficialmente potrebbe sembrare di condiscendenza, perfino di connivenza. Ciò che invece emerge è proprio una forma d’onestà, quella di cui parlavamo poco sopra, la capacità di raccontare con una prospettiva più ampia, cercando di indagare oltre la retorica e la cronaca che ha troppa fretta di trovare colpevoli. Ma non sono solo questi i meriti della loro scrittura. Il loro canto di rabbia non è rivolto alla critica musicale, ma a tutti i ragazzi che, come loro, hanno perso un padre, una madre, o un fratello in questa guerra civile senza picchetti d’onore. Una perdita che può anche non manifestarsi con la morte, ma già solo con l’accettazione di certi valori, l’affiliazione e la detenzione.
A qualche anno dallo scioglimento, ‘Ntò e Luchè hanno preso strade diverse. Ora seguono le loro evoluzioni e aspirazioni personali, alterano le ricette e si circondano di nuove crew, ma mantengono sempre una forte identità sociale sebbene non vivano più il quotidiano di quelle periferie. Superata una prima fase di difficoltà dovuta alla separazione, entrambi hanno dato alle stampe due dischi e sarà interessante rivederli sullo stesso palco il 20 maggio.
Legati ai Co’sang da un manifesto scritto insieme nel 2005, quella Poesia cruda che, oltre ad averli prodotti, può essere considerata una moderna corrente etica e musicale, i Fuossera sono la voce di Piscinola.
Con due dischi alle spalle, Spirito e materia del 2007 e Sotto i riflettori del 2011, la band guidata da O’Iank (Gianni De Lisa), Sir Fernandez (Pasquale Fernandez) e che fino al 2014 vedeva la presenza anche di Pepp J One (Giuseppe Troilo) è un punto di riferimento da quasi vent’anni per chi apprezza la musica hip hop. Da sempre ostili al clima mediatico che si è creato intorno alle vicende del loro quartiere d’origine, i Fuossera convogliano la rabbia e la voglia di riscatto palpabile fra chi li circonda e rappresentano una delle fumarole espressive più attive dell’area Nord. Ma non è solo contro la superficialità di tv e stampa che O’Iank e Fernandez si schierano. Hanno parole dure e ironiche al contempo anche nei confronti di chi prova a emergere nell’hip hop e nel rap imitando modelli sbagliati.
Ha fatto notizia un loro recente decalogo in cui sovvertono, nemmeno tanto scherzosamente, le regole di credibilità di un rapper: dalla cura per l’abbigliamento ai cliché sulla droga, fino all’ossessione per l’approvazione sui social network. A un incontro con un vecchio componente dei Fuossera, Pepp J One, sono legate le sorti di un rapper emergente proprio da quello stesso contesto: Enzo Dong, di Scampia, classe 1990, e una parte della sua storia che si racconta inconsapevolmente già solo pronunciando il suo nome.
Se sulle prime quel “dong” è un’abbreviazione del nome del rione in cui ancora oggi vive – il Don Guanella – col tempo, complice l’indirizzo della sua musica, il soprannome si è trasformato in un acronimo: Dove Ognuno Nasce Giudicato. Ed è soprattutto dalla frustrazione di chi subisce il pregiudizio che sembrano nascere i suoi testi, indirizzati a chi in parte è giustificato da una distanza geografica che distorce i fatti, ma anche a chi vive in Campania e quelle distanze fa il possibile per prenderle tutte.
Anche l’inciso dell’ultimo singolo, Sott e’ bas, prova a esprimere il disagio e l’oblio forzato di un popolo invisibile: «E Stamm e Cas Sott e Bas \ E Cell Ngopp e Cas \ Po Stat Simm Già Carcerat e Nisciun Ca Ce Fa Cas e Te Ne a Fuji» (Viviamo sotto alle piazze di spaccio, con le celle dentro casa. Per lo Stato siamo già dei carcerati, ma nessuno ci fa caso e devi scappare).
Chi non è mai scappato da Napoli e anzi, ne ha fatto un suo fortino culturale, è Franco Ricciardi.
Se hai vissuto a Napoli fra la fine degli anni 90 e l’inizio dei 2000, hai certamente visto la sua faccia un po’ sgranata, replicata migliaia di volte sulle bancarelle che proponevano i suoi cd contraffatti. E questo forse a Ricciardi potrebbe comunque far piacere essendo un uomo molto legato alla gente. Il genere col quale ha esordito nel 1986 è quella musica neomelodica che ha sempre fatto storcere il naso non solo ai critici, salvo essere sdoganata negli ultimi anni, complice anche il film Gomorra e la sua colonna sonora. Ma a un ascolto più approfondito, la sua musica non ha mai trascurato la ricerca, né messo in secondo piano i problemi sociali che la circondavano.
Lui stesso si definisce «un artista popolare napoletano, che nasce in periferia e tuttora vive in periferia. È da lì che arriva la mia ispirazione e cerco di fare da portavoce a chi di voce non ne ha». Se gli parli dei pregiudizi che per anni hanno screditato i neomelodici, lui con orgoglio e la maturità dei 50 anni, più di 30 trascorsi da musicista, ti dice che «se ti lasci distrarre dalle etichette che ti affibbiano in tanti anni di carriera, perdi quella dose di concentrazione indispensabile se non vuoi essere una meteora nella musica. Ho sempre cercato di dare le risposte più concrete sul campo, sul palco».
Il 20 maggio, su quello del Vesuvio Soundsystem, ritroverà Clementino, Enzo Dong, Rocco Hunt, i ragazzi di cui si è circondato negli ultimi anni, «donatori di siero di voglia di fare, coi quali mi confronto, con l’approccio dell’eterno alunno e la predisposizione a imparare ancora. Del resto, mi chiedo ancora cosa farò da grande». Nel suo ultimo disco, affiancato da Enzo Dong, canta di certe «prumesse mancate», che, a voler pensar male, potrebbero essere quelle della sua città, ma il suo pensiero è tutt’altro che disfattista: «Napoli l’ho vista crescere, nell’ultimo decennio anche più che in passato. La periferia che racconto è quella della brava gente, che è poi la stragrande maggioranza delle persone che la vivono. Io stesso, che abito ancora a Secondigliano, di notte faccio un po’ di giri per le Vele, ma non ho paura, perché so che non è come gli altri provano a raccontarle. C’è indubbiamente un disagio, carburante di un’arte che da queste parti si alimenta anche di rabbia. Ci metti un po’ di tempo in più a emergere, ma quello che ne viene fuori ha delle fondamenta solide, frutto di sacrifici enormi».
La curiosità di Ricciardi lo ha spinto a fondare la Cuore Nero Project, un’etichetta discografica che vede nel suo roster il rapper Ivan Granatino, famoso anche per la sua partecipazione a The Voice 2014 nella squadra di J-Ax.
Di provenienza diversa è invece la musica di Ty1. Il dj salernitano Gianluca Cranco si è sempre diviso fra il dancefloor, l’elettronica e le produzioni hip hop\rap. Collabora con Fabri Fibra, Clementino e Marracash, ma a un tempo lavora alla ricerca di un suono più personale, che poi è quello che finisce nei dischi a suo nome. Le sue stelle polari si palesano già con Mysterious Ways, brano che anticipa l’uscita di Hardship e che vede il featuring dell’alter ego inglese di Neffa, Johnny Favourite.
Fra Moroder, Disclosure e i Daft Punk, TY1 prova a dire la sua e a ritagliarsi il suo spazio, dando alle stampe un album che può giocarsi le sue chance anche sul mercato internazionale. Come detto in apertura, sarà la band di Rosario Castagnola, più conosciuto come D-Ross, ad accompagnare gli artisti sul palco.
Beatmaker di fama nazionale, possiamo apprezzare il suo lavoro sia sui dischi di rapper campani che su quelli di Emis Killa, Marracash e Fibra. Per D-Ross, l’avvicinamento al rap e all’hip hop è stato graduale, provenendo da un mondo in cui la musica era più suonata che affidata a una base. Ma la curiosità e la nuova ascesa del genere hanno fatto il resto. «Mi attrae molto, di questo mondo, la capacità continua di rinnovarsi – spiega D-Ross – se chi ha operato in altri generi musicali negli anni 90 non si è fatto trovare pronto, o ha soffocato le produzioni dei più giovani, nell’hip hop e nel rap non è stato così. Il rapper spesso diventa produttore, c’è più attenzione e collaborazione. Luchè, ad esempio, è stato fondamentale in questo processo». L’Arenile di Bagnoli accoglierà soprattutto chi ce l’ha fatta o ce la sta facendo, e quello napoletano potrebbe rappresentare un modello anche per gli osservatori esterni, spesso detrattori: «Conosciamo bene il giochino retorico dei media. È marketing e la nostra immagine sporca vende. Noi napoletani siamo molto internazionali dal punto di vista artistico. Al Nord sono sicuramente molto bravi nel valorizzare i prodotti, ma noi non abbiamo nulla da invidiare. Forse qui – e fa da eccezione al mondo del rap che ho descritto prima – ci si aiuta un po’ meno, cascando spesso in una guerra fra poveri che non condivido».
Chi ha sempre provato ad aggregare, sin dagli esordi col Clan Vesuvio, è Lucariello, l’artista che chiude questa panoramica sulla musica napoletana. Quella compilation del ’97 raccoglieva l’hip hop e il gangsta rap del momento. Ed è probabilmente con la stessa logica con cui si decidono le tracce di una cassetta, o meglio, di una più attuale playlist a tema, che Lucariello ha scelto gli artisti che avrebbero dovuto esibirsi sul palco del Vesuvio Soundsystem.
«Le voci di Napoli sono davvero tante – spiega – ma stavolta ho cercato di unire quegli artisti che hanno sempre raccontato la strada senza filtri, con un linguaggio concreto, reale, quotidiano. Pino Mauro, per esempio, sebbene rappresenti la Napoli degli anni 70, cantava anche storie di contrabbandieri e restituiva un’immagine di quei tempi tutt’altro che oleografica. Spesso si crede che raccontando certe storie si vogliano mitizzare figure negative, quando invece si prova solo a sublimarle, farle diventare musica, poesia».
Sono passati 8 anni da quel 24 aprile del 2008, dal suo passaggio ad Anno Zero di Michele Santoro con Cappotto di legno, che incollò tante persone al televisore. Nel frattempo i talk show sono morti, l’Italia ha visto avvicendarsi 4 premier e la gente ha sempre meno interlocutori, anzi, più precisamente, «ha più fiducia negli artisti, che nel mondo della politica». Secondo Lucariello «il ruolo della musica dev’essere una ricerca di libertà. Anche il mio stile provocatorio, spesso frainteso, ricerca questo; da quel cappotto fino al mio ultimo brano Guagliun e miez a via, in cui provo a spiegare che la strada non è fatta solo di malviventi, ma soprattutto di ragazzi che pur vivendo a stretto contatto con chi impugna una pistola, fra le mani ha un libro e prova ad andare a scuola».
È l’evento più importante cui Lucariello abbia prestato la sua esperienza da direttore artistico. Lui assicura «è un lavoro molto impegnativo e insieme esaltante, ma lo sarà ancor di più quella sera, quando salirò anch’io sul palco. Sarà un momento di grande condivisione».
Noi ci saremo.