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Una cosa che mi manca: lavorare al bancone

Non vedo l’ora che finisca la quarantena, non vedo l’ora di servirvi un drink

Scritto da Simone Muzza il 17 marzo 2020

A parte una settimana come giardiniere (esperimento fallito: 14 ore al giorno sotto il sole della calda estate 1995 come prima esperienza era davvero troppo), ho sempre lavorato nei locali: cameriere, receptionist, barista. In questi giorni in cui poter andare nei bar, ristoranti, club e alberghi ci sembra un’utopia, quello che più mi manca è lavorarci, prima ancora che frequentarli.
Perché stare dall’altra parte del banco, o del tavolo, ti permette di interagire di più con gli altri, di conoscere più persone, di essere al centro dell’attenzione, di guadagnare, di sentirti parte di una macchina che ha l’obiettivo di far stare bene gli ospiti. La verità? Mi sono sempre divertito un sacco, anzi negli ultimi anni provo più piacere a sgobbare nei locali piuttosto che ad andarci come cliente. Facile dirlo col senno di poi, chiaro, ma ne è riprova il fatto che tuttora – nonostante il mio lavoro principale sia quello che state leggendo – continuo a farlo.

Perché stare dall’altra parte del banco, o del tavolo, ti permette di interagire di più con gli altri, di conoscere più persone, di essere al centro dell’attenzione, di guadagnare, di sentirti parte di una macchina che ha l’obiettivo di far stare bene gli ospiti

Royal Mercure: le zuppe bollenti che bruciano le mani per i giapponesi che si addormentano sui tavoli con la sigaretta in mano, e la mia prima “carriera”: promosso al servizio delle pizze in camera, mancia sicura! A proposito, un grosso saluto a tutti i colleghi che molto probabilmente non rivedrò mai più, e anche ai transessuali che mi scioccavano all’uscita con falli enormi sotto gli impermeabili nei pressi della mia Fiat Uno 45 Sting, quattro marce, no Airbag e si muore da eroi (cit.).
Taverna della Trisa: il menu in dialetto trentino da tradurre ai clienti stranieri – dire “Bambi” al posto di capriolo non è stata una grande mossa di marketing, anche perché era un cervo: capriolo si dice roe deer -; le oltre cento grappe diverse che Giuliano il maitre, prima di farmi correre come un pazzo, mi faceva assaggiare perché altrimenti “come fai a venderle?”.
Antica Locanda Solferino: quello che succedeva nelle camere invendute (o vendute a metà); le otto ore interminabili del sabato e domenica 15-23; gli after in cucina dopo i venerdì dei Magazzini e i sabati a pranzo al cinese (il cinese, quanto mi manca il cinese?) coi colleghi del ristorante; le ragazze dell’Ente del turismo austriaco.
Queste le avventure principali, alle quali aggiungere i magnifici catering in una villa di Casalecchio di Reno o giù di lì, dove si sposavano o forse si sposano ancora parecchi facoltosi amanti dello champagne e dei camerieri col guanto bianco. I favolosi anni 90: soldi facili.
E ovviamente le Bar Marathon di ZERO, quando ogni scusa è buona pur di sostituire un vero professionista al bancone: ringrazio ancora Luis Hidalgo per avermi lasciato lo slot di mezzanotte davanti a centinaia di persone che aspettavano facessi da bere in fretta il drink inventato da lui.

I magnifici catering in una villa di Casalecchio di Reno o giù di lì, dove si sposavano o forse si sposano ancora parecchi facoltosi amanti dello champagne e dei camerieri col guanto bianco. I favolosi anni 90: soldi facili

Successivamente per qualche anno ho smesso, chissà perché: un po’ appunto il lavoro di ZERO che è diventato a tempo pieno, un po’ (prima) la voglia di andare in giro la sera a cazzeggiare, un po’ (poi) la famiglia che ti costringe a essere presentabile di prima mattina, quando la gente della notte, soprattutto quella che ne ha fatto un mestiere, torna a casa; un po’ se vogliamo l’educazione e il contesto in cui sono cresciuto, che mi hanno portato a vedere quello dei locali come una fase della vita non definitiva, nonostante (o forse proprio per quello) fosse il lavoro di tutti i nonni.

Poi, complice un corso di bartending che ho seguito presso la Santeria Toscana, ho ricominciato a faticare al bancone in un club, un appuntamento settimanale che aspetto con trepidazione e mi permette di divertirmi ascoltando ottima musica.
Sampling Moods: “poco ghiaccio, tanto alcol frà”; vieni dalle 6 alle 6 (scusa Connie, la serata comincia la mattina o la sera?); quelli che pagano il drink e lo ordinano e poi mentre glielo prepari se ne dimenticano per sempre; gli shot di tequila; “a che ora stacchi?”; Campari lemon a colazione; “se non hai la doppio malto va bene anche una birra normale con del rum”; Andrea che continua a parlare per cinque minuti buoni dopo che chiunque smette di ascoltarlo; quelli che si sono ricordati il drink che gli avevi preparato due ore prima e lo rivogliono; la volta che è saltata la musica e ho fatto finta che fosse solo l’intervallo, come all’opera; Fabio che arriva sempre dalla Luna: “buongiorno o buonanotte, fate voi“.

Non vedo l’ora che finisca la quarantena, non vedo l’ora di servirvi un drink.