Quando parliamo di live arts, cioè di “arti dal vivo”, a cosa ci riferiamo? Immaginate, a questo proposito, Il treno di John Cage: opera commissionata nel 1978 al grande artista americano per la seconda edizione della Settimana della Performance di Bologna. Un convoglio ferroviario che, attraversando la campagna italiana, si tramutava nel palcoscenico di un’azione artistica della durata di un’intera giornata. Ogni stazione, ogni carrozza e ogni suono prodotto dal treno, dai suoi passeggeri e dal paesaggio circostante, diventava parte di una composizione in continua evoluzione. Fondendo il ritmo meccanico delle rotaie con l’imprevedibilità del suono ambientale, si creava una sinfonia viva e irripetibile, un viaggio sonoro che celebrava il caos organizzato e l’interazione tra uomo e ambiente. Un happening, un evento che trascendeva i confini della musica e della performance.
Ancora oggi, in una comunicazione ordinaria, si tende a semplificare parlando perlopiù di teatro, di danza, di musica – appunto – dal vivo; di arti visive o installative, se prevedono una specifica relazione in presenza dell’osservatore; o anche di cinema, quando si impone come evento partecipato in tempo reale. Con un termine ombrello diventato pervasivo e per questo ormai sempre meno efficace, si parla appunto anche di performance, il più delle volte quando non si sa come catalogare “quella cosa” di cui si è fatta esperienza.
Il punto è che nelle live arts tutte queste tipologie convivono in prossimità del concetto vibrante di presenza, di liveness. Intorno a esso, in maniera diretta o differita rispetto ai gradienti partecipativi di volta in volta utilizzati, le arti si connettono l’una con l’altra, si mescolano e sovrappongono, facendo evaporare i propri confini.
Il punto è che nelle live arts tutte queste tipologie convivono in prossimità del concetto vibrante di presenza, di liveness.
Il risultato di questa ibridazione non corrisponde però alla somma, in un reciproco dialogo, delle distinte discipline – la cosiddetta multidisciplinarità – ma proprio a un’altra creatura artistica, a un altro fenomeno. Una “vertigine” del performativo, potremmo dire, prendendo in prestito le parole utilizzate da Germano Celant in occasione di una bella mostra dal titolo Vertigo, da lui curata nel 2007 per il Museo d’Arte Moderna di Bologna: «Ne deriva un vortice – affermava il grande critico d’arte – che risucchia ogni esperienza e ogni cosa, in cui tutti gli elementi del comunicare artistico entrano in un sistema complesso che è irriducibile, molteplice e circolare, all’interno del quale è impossibile determinare un’organizzazione gerarchica».
Se assumiamo questa prospettiva e volessimo di conseguenza ipotizzare alcune traiettorie per una storia “segreta” delle live arts in Italia, dovremmo probabilmente partire proprio da Bologna e, più in generale, dall’Emilia-Romagna. Perché il capoluogo felsineo, nel corso degli ultimi cinquant’anni e grazie a un humus culturale spesso favorevole alla sperimentazione e alla contaminazione, ha contribuito in maniera determinante alla messa a fuoco, nel nostro Paese, di una sensibilità aderente alle sfide più audaci del contemporaneo in ambito performativo. Soprattutto grazie a una speciale convivenza, anche conflittuale, tra istituzioni e realtà culturalmente non allineate, che ha fatto di Bologna, fino a un recente passato, un luogo davvero unico in Italia.
Questa vicenda ha un seminale momento di sintesi proprio nella catena di eventi che caratterizzò dal 1977 la Settimana Internazionale della Performance. Dopo circa un decennio di movimentismo giovanile che aveva attraversato e scosso in profondità l’Italia e la stessa città, il Settantasette bolognese, nelle sue componenti di radicalismo politico e di euforia creativa, con l’Università occupata e il Living Theatre per le strade, costituì lo sfondo in cui si svolse la prima delle sei edizioni della manifestazione curata fino al 1982 da Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio. Tre figure che seppero far dialogare le diverse sfaccettature dell’arte con gli ambienti della critica, della produzione artistica e, non ultimo, dell’accademia.
Non dimentichiamoci, infatti, che nel 1971 nasce a Bologna il DAMS, il primo corso di laurea in Italia dedicato all’interazione tra discipline delle arti, della musica e dello spettacolo. Un progetto basato su un’impostazione innovativa della formazione universitaria, che prevedeva il contributo congiunto di studiosi, intellettuali e artisti. Insieme, tra gli altri, a Eco, Maldonado, Pignotti, Scabia, Leydi e Celati, dentro e attorno al laboratorio DAMS della prima ora operarono anche Barilli, Alinovi e Daolio, in un trend per il quale – citando il titolo di una mostra da loro curata nel 1981 proprio nell’ambito della quinta edizione della Settimana – “tutte le arti tendono alla performance”.
Anche le istanze più avanzate del Nuovo Teatro e della Nuova Danza di quegli anni trovarono nella Settimana della Performance un punto, per certi versi irripetibile, di fusione, grazie anche alla collaborazione dei curatori con i due critici-guru dell’epoca, Franco Quadri e Leonetta Bentivoglio. Il corpo “elettrico” di Laurie Anderson o i corpi nudi di Marina Abramović e Ulay, uno di fronte all’altro e a contatto con il visitatore di turno, nel loro storico Imponderabilia si specchiavano idealmente nella carica iconica di realtà “teatrali” come Il Carrozzone di Lombardi-Tiezzi-D’Amburgo e Gaia Scienza di Corsetti; o nelle algide coreografie destrutturate di Simone Forti e Steve Paxton, “divi” di quella stagione postmoderna americana che aveva spogliato il corpo da qualsiasi retorica drammatica.
Sempre a Bologna c’era poi la Galleria Neon, dove fin dal 1981 aveva trovato asilo la visione di Alinovi e Daolio, in un mix eccentrico fatto di esperimenti performativi, concettuali o sentimentalmente affini all’idea anticonformista dell’arte professata dal suo spirito guida e co-fondatore, Gino Gianuizzi. Oppure, sebbene di tutt’altra specie, il Cassero, nato nel 1982 come spazio di rivendicazione identitaria e culturale della comunità LGBTQQIA+, frutto pressoché unico al tempo, a livello nazionale, di una negoziazione virtuosa tra una istituzione pubblica (il Comune di Bologna) e una associazione di orientamento dichiaratamente omosessuale.
Il “modello Bologna”, cioè la stretta relazione di spazi indipendenti dediti alla sperimentazione dal basso con il tessuto culturale e sociale della città.
L’elenco di questa trama potrebbe andare avanti a lungo, restituendo quello che in tempi recenti è stato definito da Francesco Spampinato il “modello Bologna”, cioè la stretta relazione di spazi indipendenti dediti alla sperimentazione dal basso con il tessuto culturale e sociale della città. Con la particolarità di saper elaborare – afferma lo studioso – «modelli di professionalizzazione bottom up nei più svariati settori delle arti, dello spettacolo e della comunicazione, a volte in sinergia con le istituzioni e l’amministrazione locale, ma senza mai dipenderne».
Tuttavia, per la storia che, sebbene per lampi, stiamo qui cercando di tracciare, è necessario soffermarci su un secondo, decisivo momento di sintesi, che vede la luce nel 1994 sia come esito a lungo raggio delle tensioni che avevano animato il Settantasette bolognese e gli anni a esso immediatamente successivi, sia delle nuove istanze di immaginario e cambiamento di chi si affacciava con spirito antagonista al decennio dei Novanta. Stiamo parlando del Link Project.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la generazione della Pantera si era manifestata a Bologna in forme organizzate di dissenso. Animata dalle inquietudini del cyber-punk e dal rifiuto di un “realismo capitalista” che, come teorizzava Mark Fisher, tendeva a colonizzarne i sogni e l’idea stessa di futuro. Una città con il DAMS che, oggetto di forti critiche rispetto alla sua capacità di essere ancora in grado di interpretare il presente, era stato occupato da diversi collettivi studenteschi alle prese con la creazione di nuove genealogie, attraverso l’autogestione di spazi autonomi di formazione e programmazione culturale. Una serie di turbolente occupazioni culminarono nell’apertura di luoghi cult come l’Isola nel Kantiere, il Livello 57 o, più tardi, il TPO. Spazi di aggregazione e progettazione di qualità che miravano a tradurre in maniera alternativa alla monocultura di massa il senso di appartenenza di una nuova generazione e il suo modo di interpretare la convivenza. Alle occupazioni seguirono però gli sgomberi e le tattiche di mediazione con l’amministrazione cittadina, affinché lo slancio rappresentato da questo movimento policentrico e difficilmente classificabile, formato da collettivi, gruppi informali, attivisti e nuove intelligenze creative, potesse trovare un punto di convergenza utile.
Il Link Project nasce qui, dall’incontro-scontro tra una comunità indipendente auto-professionalizzata e le strategie di contenimento dell’istituzione, all’incrocio di una galassia molto variegata di persone che, a diverso titolo e in contatto con una affine rete europea, si occupavano di video, di grafica, di web, di comunicazione, di teatro, cinema e TV sperimentali, di videoarte, di azionismo e performance, di musica hip-hop, elettronica e di ricerca, di avanguardie storiche e nuove correnti dell’underground. Il tutto in uno spazio industriale, come accadeva già da anni in Nord Europa, negoziato con l’amministrazione cittadina: un ex-deposito delle farmacie comunali, vicino alla stazione ferroviaria. Più di duemila metri quadri, articolato in ambienti dedicati ad eventi e servizi, senza però una gerarchia interna, se non in rapporto alla capacità di contenere migliaia di persone piuttosto che cinquanta, e dunque in grado di costruire relazioni e funzioni differenti. Tre sale di diversa ampiezza per gli eventi dal vivo, ma anche laboratori, una libreria, un bar-caffè, un internet-point, una mensa e spazi di confronto. Ripartire dallo spazio e dalle sue peculiarità funzionali e immaginifiche significava uscire dalla logica del contenitore, per mettere in atto piuttosto una forma di elaborazione che rendeva lo spazio co-protagonista dell’esperienza proposta. E il successo fu travolgente.
Chi andava al Link poteva anche non sapere cosa ci fosse in programma, perché comunque significava entrare in un ambiente immersivo, in un flusso di immaginario, in una sorta di rave intermediale permanente.
Chi andava al Link poteva anche non sapere cosa ci fosse in programma, perché comunque significava entrare in un ambiente immersivo, in un flusso di immaginario, in una sorta di rave intermediale permanente. Senza soluzione di continuità, la medesima serata poteva connettere il pubblico presente con un concerto del calibro di Aphex Twin o Pansonic, con una performance di Motus o le incursioni d’artista di Luca Vitone; una rassegna di videodanza o di cinema dedicato a Bill Viola con un dj-set di Hell. Insomma, un palinsesto fittissimo e di altissimo livello, perlopiù tarato sul rendere accessibile quello che non lo era, a Bologna e in Italia. Non un centro sociale, dunque, ma una vera e propria factory (contro)culturale di stampo internazionale, dove le ambizioni politiche si trasformavano concretamente in una proposta a più mani mossa da posizioni di sperimentazione radicale.
Ora, è pressoché impossibile rendere conto in poche righe della complessità generata dal Link Project e dell’effetto in qualche misura modellizzante che ha significato per altre future realtà occupate. Ma se, come puro esercizio, ci soffermiamo sulle questioni del performativo e delle live arts, è doveroso dire che lì, per circa sei anni, è avvenuto qualcosa di importante, rappresentato prevalentemente dalla figura schietta di Silvia Fanti, in tandem con Nelsy Leidi e accompagnata fin dalle origini dall’altrettanto strategica quanto schiva figura di “ideologo” incarnata da Daniele Gasparinetti.
Entrambi protagonisti delle occupazioni del DAMS già menzionate e delle forme di autogestione e contro-programmazione culturale che ne erano scaturite, co-fondatori del Link Project insieme ad altri compagni, avevano costruito con tenacia le condizioni per qualcosa che oggi riconosciamo avere a che fare, per l’Italia di allora, con una inedita gestione curatoriale. Le scelte di Fanti, in particolare, non si esaurivano al Link in una programmazione sicuramente spiazzante, ma si ponevano sullo stesso piano di creazione della dimensione artistica di volta in volta convocata. Sollecitando e condividendo idee, nuovi contesti di incontro e di relazione con la città, nuove forme di spettatorialità. Una presa di responsabilità che andava dunque a incidere sull’affermazione di nuovi linguaggi scenici.
Ciò che costantemente veniva messo in discussione era l’idea di un “teatro” sclerotizzato, con i suoi rituali riconoscibili, con i suoi tempi e spazi dedicati, con le sue forme più o meno sacralizzate di lavoro sul corpo, sul testo, sul racconto. In tempi recenti Fanti ha ricordato come allora ci fosse bisogno piuttosto «di spazi aperti, magici e crudi, ambienti spogli che mettessero a nudo lo scheletro del teatro e della danza e in cui oggetti, dispositivi, immagini e esseri viventi fossero sullo stesso piano».
«Spazi aperti, magici e crudi, ambienti spogli che mettessero a nudo lo scheletro del teatro e della danza e in cui oggetti, dispositivi, immagini e esseri viventi fossero sullo stesso piano.»
Non è un caso che proprio il Link Project fosse divenuto in quegli anni l’interlocutore privilegiato di una nuova ondata di artisti della scena nazionale. Uno spazio di coprogettazione e confronto anche per chi, della generazione precedente, provava, secondo le parole di Roberta Ferraresi, «a guardar fuori da se stesso, dalle sue abitudini e cliché, colto anche nel meticciarsi con altri saperi, discipline, culture, con le zone più inquiete delle arti e della socialità». In questa prospettiva, per esempio, la presenza di Corsetti, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro Valdoca, Virgilio Sieni, Loredana Putignani, Antonio Neiwiller, Enzo Cosimi o Roberto Castello realizzavano una sorta di ideale continuum con gli emergenti Motus, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino, Kinkaleri e MK, fino alla scena “indisciplinata” internazionale di Xavier Le Roy, Jérôme Bel, Myriam Gourfink o Marten Spangberg.
Indagare il lascito di questa esperienza significa parlare del recente passato di Bologna ma anche del suo presente. Perché dopo il 2001, con la chiusura del Link Project e la disseminazione delle sue singole anime nel tessuto culturale non solo cittadino, Fanti e Gasparinetti hanno rilanciato la sfida delle live arts, in una nuova, fortunata e indipendente creatura progettuale che prende tutt’oggi il nome di Xing. È soprattutto grazie all’attività instancabile di questa sigla che Bologna è entrata ancora più stabilmente nei radar più autorevoli del performativo, nonostante il progressivo processo di normalizzazione e colonizzazione turistica che ha investito la città.
Pur in modalità opportunamente aggiornate, Xing sembra di fatto aver raccolto da tempo il testimone della stagione eroica della Settimana della performance, contribuendo così ad accelerare il metabolismo del “nuovo” in Italia. Per avere il senso di questa rivoluzione silenziosa basterebbe dare uno sguardo ai tantissimi artisti invitati e sostenuti, nei progetti che riguardano Netmage piuttosto che F.I.S.Co., Live Arts Week, Raum, fino agli ultimissimi Holes e Xong, realizzati in ormai quasi venticinque anni di attività. Moduli di progettazione che, su scale diverse che vanno dal micro al macro, sono stati a più riprese modalità inedite e affatto convenzionali di ricerca, creazione, spettatorialità, in spazi sempre diversi della città e – come rivendicano gli stessi curatori – «altamente significativi per la loro collocazione e per il valore trasformativo sul territorio».
In conclusione, se Roma e Milano oggi hanno delle punte di eccellenza nella programmazione delle live arts, ebbene, un po’ è anche merito della storia bolognese fin qui raccontata. A titolo di esempio, si pensi, per Roma, al festival Short Theatre (attualmente sotto la guida di Piersandra Di Matteo) o Buffalo (diretto da Michele Di Stefano), o alla rassegna degli scorsi anni al Mattatoio curata da Ilaria Mancia; oppure se, con una inclinazione affine, Milano ha avuto in passato (grazie alla guida esperta di Umberto Angelini) progetti chiave come Uovo e oggi Triennale può mettere a sistema una programmazione “teatrale” sempre più disponibile all’ibridazione disciplinare; o ancora, sempre stando a Milano, al progetto Le Alleanze dei Corpi (a cura di Maria Paola Zedda).
Non ci stupirà, quindi, trovare nell’imminente programma milanese del Hyperlocal Festival spore performative disorientanti come quelle consegnate nelle mani di gruppi e artisti “anfibi” come Parini Secondo, Gaia Ginevra Giorgi, Industria Indipendente, Sara Manente, Kinkaleri e Jacopo Benassi. Basti dire che, a proposito dei primi, lo scorso anno molti hanno storto il naso durante l’ultima edizione della New Italian Dance Platform – istituzionalissimo progetto con lo scopo di promuovere il meglio della danza contemporanea in Italia – aspettandosi delle danze “danzate” che invece – fortunatamente – non sono mai arrivate.
To answer the initial question, we first have to acknowledge that even today, in everyday communication, we tend to simplify by mostly referring to theatre, dance, and music—art forms that are indeed live. We also talk about visual or multimedia arts when they involve a specific relationship with the audience’s presence, or even cinema when it becomes a real-time participatory event. We use the umbrella term performance, which has become pervasive and, as a result, increasingly less effective—often as a catch-all label for “that thing” we experienced but can’t quite categorise.
The thing is that, in live arts, all of these categories coexist in proximity to the vibrant concept of presence—the liveness. Around the latter, in direct or indirect ways, depending on the participatory gradients employed from time to time, the arts connect, blending and overlapping, dissolving their boundaries.
However, the result of this hybridisation doesn’t correspond to the sum and coexistence of the specific disciplines in a mutual dialogue—the so-called multidisciplinarity—but rather to another artistic creature, another phenomenon. We could call it a “vertigo” of the performative, borrowing the words of Germano Celant from an exhibition he curated under the same name in 2007 at the Museum of Modern Art in Bologna: «It results in a vortex,» stated the great art critic, «that engulfs every experience and everything, in which all elements of artistic communication enter into a complex system that is irreducible, multifaceted, and circular, within which it is impossible to determine a hierarchical organisation.»
If, from this standpoint, we want to hypothesise some trajectories for a “secret” history of the live arts in Italy, then we should probably start from Bologna and, more broadly, from Emilia-Romagna. Over the last fifty years, thanks to a cultural humus often favourable to experimentation and contamination, the regional capital has played a central role in bringing into focus, in our country, an awareness attuned to the boldest challenges of contemporary performance. In particular, this was achieved through a unique coexistence—albeit sometimes conflictual—between institutions and culturally discordant entities, which made Bologna, until very recently, a truly special hub in Italy.
This story finds a seminal moment of synthesis precisely in the chain of events that characterised the International Performance Week starting in 1977. After nearly a decade of youth activism that had deeply traversed and shaken Italy and Bologna itself, the ‘77 Bologna movement, with its components of political radicalism and creative euphoria—with the University occupied and the Living Theatre in the streets—provided the unique backdrop for the first of six editions of the event, curated until 1982 by Renato Barilli, Francesca Alinovi, and Roberto Daolio. These three figures managed to create a dialogue between the various facets of art and the worlds of criticism, artistic production, and, not least, academia.
Indeed, we shouldn’t forget that DAMS was established in 1971 in Bologna as the first degree in Italy entirely dedicated to the interaction between arts, music, and entertainment disciplines. This project was built on an innovative approach to higher education, incorporating the contributions of researchers, intellectuals, and artists. Among others, Eco, Maldonado, Pignotti, Scabia, Leydi, and Celati were involved. Barilli, Alinovi, and Daolio also worked within and around the DAMS laboratory in its early days, in a trend for which—quoting the title of an exhibition they curated in 1981 as part of the fifth edition of the Settimana—“all the arts tend towards performance.”
Even the most advanced instances of the New Theater and New Dance of those years found, in Performance Week, a melting point—one that, in some ways, was unique and unrepeatable. This was also thanks to the collaboration of the curators with the two critic-gurus of the time, Franco Quadri and Leonetta Bentivoglio. The “electric” body of Laurie Anderson, or the naked bodies of Marina Abramović and Ulay, facing each other and in contact with the visitor in their historic Imponderabilia, ideally mirrored the iconic charge of “theatrical” realities such as Il Carrozzone by Lombardi-Tiezzi-D’Amburgo and Gaia Scienza by Corsetti; or in the cold, deconstructed choreographies of Simone Forti and Steve Paxton, “stars” of that American postmodern era that had stripped the body of any dramatic rhetoric.
Still in Bologna, there was the Neon Gallery, where, since 1981, Alinovi and Daolio’s vision had found refuge in an eccentric mix of performative and conceptual experiments, or those sentimentally aligned with the nonconformist idea of art professed by its guiding spirit and co-founder, Gino Gianuizzi. Or, though of an entirely different kind, the Cassero, established in 1982 as a space for identity and cultural expression of the LGBTQIA+ community—a nearly unique case at the time, on a national scale, resulting from a virtuous negotiation between a public institution (the Municipality of Bologna) and an association with an openly homosexual orientation.
The list of this narrative could go on, reflecting what Francesco Spampinato recently described as the “Bolognese model,” or the close relationship between independent spaces dedicated to grassroots experimentation and the city’s cultural fabric. With the distinctive ability to develop—according to the researcher—“bottom-up professionalisation models in various sectors of the arts, entertainment, and communication, sometimes in synergy with institutions and local administration, but never dependent on them.”
However, for the story we are attempting to trace here, even if only in flashes, it is necessary at this point to focus on a second, decisive moment of synthesis, which came to light in 1994. This moment emerged both as a long-range outcome of the tensions that had animated the ’77 Bologna movement and the years immediately following, as well as the new demands for imagination and change from those who approached the 1990s with an antagonistic spirit. We are talking about the Link Project.
Between the late 1980s and early 1990s, the Pantera generation manifested in Bologna through organised forms of dissent. Fueled by the anxieties of cyberpunk and the rejection of a “capitalist realism” that, as theorised by Mark Fisher, sought to colonise their dreams and the very notion of the future. In a city with the DAMS (Arts, Music, and Performing Arts Studies), which faced strong criticism regarding its ability to still interpret the present, several student collectives occupied the university, creating new genealogies through the self-management of autonomous spaces for education and cultural programming. This period was marked by a series of turbulent occupations, culminating in the opening of cult venues such as Isola nel Kantiere, Livello 57, and, shortly after, TPO. These spaces of aggregation and design aimed to translate, in an alternative way to mass monoculture, the sense of belonging of a new generation and its way of interpreting cohabitation.
However, the occupations were followed by evictions and mediation tactics with the city administration, aiming to ensure that the momentum generated by this polycentric and difficult-to-classify movement—including collectives, informal groups, activists, and new creative intelligence—could find a useful convergence point. The Link project originates from here, from the encounter-clash between a self-taught and self-sufficient community and the institution’s containment strategies, at the crossroads of a highly diverse galaxy of people who, in various capacities and contact with a similar European network, were involved in video, graphics, web, communication, experimental theatre, cinema and TV, video art, actionism and performance, electronic music and research, historical avant-gardes, and new underground currents.All of this took place in an industrial space that was anything but conventional: a former depot of the municipal pharmacies, near the railway station. More than two thousand square metres of space were dedicated to events and services, operating without an internal hierarchy, except in relation to the capacity to host thousands of people rather than fifty, and thus able to foster different relationships and functions. Three rooms varied in size for live events, but also laboratories, a library, a bar café, an internet point, a basement, and spaces for discussion.
Starting from the space and its functional and imaginative peculiarities meant stepping outside the box, putting into action a form of creative development that made the space a co-protagonist of the experience offered. The success was overwhelming.
Those who went to the Link might not have known what to expect in terms of programming, because it meant entering an immersive environment, a flow of imagery, a sort of permanent intermedial rave. Seamlessly, the same evening could connect the audience with a concert by Aphex Twin or Pan Sonic, a performance by Motus, an exhibition by Pietroiusti; a video dance showcase or a film series dedicated to Bill Viola with a DJ set by Hell. In short, it was a densely packed and high-quality schedule, mostly designed to make accessible what was otherwise not present in Bologna and Italy. It was not a social centre, but rather a genuine (counter)cultural factory of international scope, where political ambitions were concretely transformed into a multi-faceted proposal driven by positions of radical experimentation.
Nowadays, it’s almost impossible to capture in just a few lines the complexity generated by the Link Project and the somewhat model-like effect it had on future occupied spaces. However, if we pause to consider the issues surrounding performative and live arts, we must acknowledge that, for approximately six years, something remarkable took place there—largely driven by the blunt figure of Silvia Fanti, who from the beginning was accompanied by the equally strategic and blunt presence of Daniele Gasparinetti, the project’s “ideologue.”
Both key figures in the DAMS occupations mentioned earlier, as well as in the forms of self-management and counter-cultural programming that emerged from them, they were co-founders of the Link Project along with other comrades. They had tenaciously built the conditions for something that we now recognise as an innovative approach to curatorial management in Italy at that time. Fanti’s choices, in particular, extended beyond the Link’s undeniably disruptive programming, placing themselves on the same level as the artistic dimension being summoned. He actively encouraged and shared ideas, creating new contexts for interaction and relationships with the city, and exploring new forms of audience engagement. This sense of responsibility significantly influenced the emergence of new performative languages.
What was always questioned was the idea of a sclerotised “theatre,” with its recognisable rituals, its specific times and dedicated spaces, and its more or less sacralised forms of working on the body, the text, and the narrative. Recently, Fanti recalled how, back then, there was a need for “open, magical, and raw spaces—bare environments that laid bare the skeleton of theatre and dance, where objects, devices, images, and living beings were on the same level.”
It’s no coincidence that the Link Project became, during those years, the privileged interlocutor for a new wave of artists on the national scene. A space for co-design and dialogue for those from the previous generation who, in the words of Roberta Ferraresi, “tried to look beyond themselves, beyond their habits and clichés, even engaging in cross-fertilisation with other knowledge, disciplines, cultures, and the more restless areas of the arts and society.” In this perspective, for instance, Corsetti, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro Valdoca, Virgilio Sieni, Loredana Putignani, Antonio Neiwiller, Enzo Cosimi or Roberto Castello formed an ideal continuum with the emerging Motus, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino, Kinkaleri and MK, extending to the “undisciplined” scene of Xavier Le Roy, Jérôme Bel, Myriam Gourfink or Marten Spangberg.
To explore the legacy of this experience means discussing not only Bologna’s recent past but also its present. After 2001, with the closure of the Link Project and the dispersal of its various elements within the cultural fabric, not only of the city, Fanti and Gasparinetti renewed the challenge under the banner of live arts, through a new, successful, and always independent project that still goes by the name of Xing. It is primarily thanks to the tireless work of this organisation, now involving new collaborators, that Bologna has become even more firmly established on the most authoritative radars of performance art.
This is a story that we believe has inherited, at least symbolically and in suitably updated ways, the heroic season of the International Performance Week, thus contributing to accelerating the metabolism of the ‘new’ in Italy. To grasp the sense of this silent revolution, it would be enough to take a look at the countless artists invited and supported over nearly twenty-five years of activity, as listed on the Xing website. Their projects include Netmage, F.I.S.Co., Live Arts Week, Raum, and the most recent Holes and Xong. These design modules, on various scales ranging from micro to macro, have repeatedly been innovative and entirely unconventional modes of research, creation, and audience engagement, in diverse and highly significant spaces within the city, “for their location and for their transformative impact on the territory.”
In conclusion, if Rome and Milan today have peaks of excellence in live arts programming, it is partly due to the history of Bologna that has been recounted here. For example, in Rome, one can think of the Short Theatre festival (currently directed by Piersandra Di Matteo) or the Buffalo project (directed by Michele Di Stefano), or the past year’s series at the Mattatoio curated by Ilaria Mancia. For Milan, on the other hand, one might consider past experiences like Uovo or the current intention of the Triennale to systematize a “theatrical” programming increasingly open to disciplinary hybridization (both under the expert guidance of Umberto Angelini); or, still in Milan, the Le Alleanze dei Corpi project (curated by Maria Paola Zedda).
It will not surprise us, then, to find in the upcoming Hyperlocal programming performative spores as disorienting as those delivered by “amphibious” groups and artists such as Parini Secondo, Gaia Ginevra Giorgi, Industria Indipendente, Sara Manente, Kinkaleri, and Jacopo Benassi. It is enough to say that, regarding the former, last year many people frowned upon the latest edition of the New Italian Dance Platform—an institutional project aimed at promoting the best of contemporary dance in Italy—expecting “danced” dances that, fortunately, never materialized.