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XXI

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Andrea Maffi il 17 maggio 2020
Aggiornato il 18 maggio 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Angelo strattonò verso di sé l’arabo per il fucile, così da disarmarlo e fargli perdere l’equilibrio. L’uomo cadde di faccia sulla sabbia secca dell’altopiano e lo guardò dal basso, col volto bruciato dal sole deformato in un’espressione supplichevole.
Angelo prese l’uomo per il colletto, lo sollevò in aria per studiargli il viso e lo trapassò con un pugno che strappò la spina dorsale fuori dalla schiena. Quando ritrasse il braccio dal corpo dell’arabo, il sangue colava dall’arto metallico che brillava nella luce del giorno.
Angelo si guardò attorno per qualche secondo.
Il paesaggio circostante sembrava deserto, ma l’aria era carica di pericolo: doveva restare vigile, attento, continuare ad avanzare e difendere la posizione guadagnata, così cominciò a camminare in mezzo alle sterpaglie con un’andatura lenta e pesante e un fare guardingo. Ogni passo sollevava una piccola nuvola di polvere che danzava nell’aria per qualche secondo e poi spariva, trascinata via dal vento caldo e secco.
Un cecchino cominciò a sparargli dalla collina.
Tre pallottole rimbalzarono sul corpo insensibile, mentre altre due gli sibilarono accanto, conficcandosi in terra e formando dei buchi larghi qualche centimetro. Mentre l’acciaio leggero si rigenerava nei punti danneggiati, Angelo attivò il sensore termico e individuò il punto esatto in cui l’avversario cercava di sottrarsi alla sua vista. Angelo estrasse la pistola dall’avambraccio, zoommò per prendere meglio la mira e colpì l’arabo in testa, facendogli esplodere il cranio.

Svanito l’ultimo eco dello sparo, l’altopiano era tornato calmo.

Angelo visualizzò l’orario sul visore: era l’una e mezza del pomeriggio e gli era venuta una gran fame, così corse al versante della collina e trovato il punto adatto cominciò a scavare tra gli alberi. Dopo qualche minuto la buca era abbastanza grande da infilarvisi per intero; vi si sdraiò, si seppellì con la terra smossa e poi chiuse il collegamento. Quando si tolse il casco, la prima cosa che Angelo fece fu guardarsi le braccia.
Nonostante il rosa pallido della carnagione non presentasse tracce di sangue, continuava a sentirsi sporco. Emise un sospiro di sollievo e cercò di pensare: Anche oggi turno finito. La breve frase, al posto di risuonare composta e definita, nella sua testa assunse la forma di un rumore bianco che gli rimbombò nelle orecchie lasciandolo più stordito di prima.
Lo sgabuzzino aveva le pareti coperte da una vecchia carta da parati ed era illuminato da due lampade a neon verdi che si incrociavano nel mezzo del soffitto. Ad eccezione della poltrona su cui era seduto e del mobiletto con le bottiglie di liquori su cui appoggiò il casco, la stanza era completamente spoglia.
Angelo si tirò su dalla sedia a fatica, rischiando di perdere l’equilibrio. Passo dopo passo, con uno sforzo enorme arrivò alla porta e fece scattare la serratura dello sgabuzzino, poi entrò in corridoio; aiutandosi con il supporto delle pareti si diresse verso il bagno, dove si fece una lunga doccia calda in piedi, aggrappato alle maniglie.
Quando uscì dal box si sentiva già meglio: almeno riusciva a stare in piedi.
Angelo si guardò allo specchio osservando gli occhi completamente innervati di sangue. La sclerite cronica da realtà aumentata neurale era uno dei tanti effetti collaterali del controllo remoto, uno dei più comuni, che incorreva con altissima frequenza a seguito di missioni particolarmente lunghe o durante periodi di leva prolungati.
Nonostante l’insorgere della sclerite, della stanchezza e delle difficoltà motorie, Angelo poteva dirsi soddisfatto: anche quel giorno aveva lavorato bene. Il supervisore sarebbe stato contento per l’impegno che aveva dimostrato sul campo. Probabilmente avrebbe ricevuto un bonus alla fine del mese, ma Angelo non era un uomo veniale, non era l’aumento di stipendio che l’avrebbe reso felice.
Come gli aveva detto l’addetto alle risorse umane al momento dell’arruolamento, il paese stava attraversando un momento difficile, e chi poteva doveva cercare di fare la propria parte secondo le proprie possibilità.

Così Angelo stava facendo: stava facendo la sua parte, per il bene del paese.

Per osservare meglio le condizioni degli occhi Angelo avvicinò il volto allo specchio. L’infiammazione rendeva le iridi ancora più scure di quanto lo fossero di solito: sembravano piene di catrame; a guardarle bene, poteva quasi sentirne il puzzo.
Rimuginò per qualche secondo: forse avrebbe potuto medicarsi gli occhi sfilando temporaneamente i capillari. Li avrebbe estratti uno ad uno, così da ripararli con ago e filo. Un’operazione semplice. Avrebbe potuto chiedere a sua moglie di farlo al posto suo. Le avrebbe detto di usare un filo rosso. Il rosso era una buona idea. Il rosso era il suo colore preferito.
Mentre cercava le forbici nel mobile del bagno la voce di Cinzia annunciò che il pranzo era pronto. Per riprendersi Angelo si sciacquò la faccia con foga.
Per quanto cercasse di controllare il movimento degli occhi, però, non ci riusciva. Le orbite erano inclinate verso l’alto, bloccate, e non volevano saperne di muoversi, così uscì dal bagno con gli occhi ribaltati e andò in cucina.
Quando entrò, la tavola era apparecchiata e il suo piatto già pieno. Cinzia, sua moglie, aveva in testa il casco a realtà aumentata e un piatto vuoto di fronte a sé. Angelo prese la sedia e si accomodò al proprio posto.
– Ciao, disse Cinzia. Ho lasciato l’isolatore inattivo per sentire quando saresti arrivato; è un problema se ti faccio compagnia con il casco addosso?
Angelo biascicò un “Sì” che Cinzia non ascoltò o non riuscì a sentire.
– Ho finito di mangiare da poco, era mezz’ora che ti stavo chiamando.
Angelo rispose che non c’era problema. Non c’era una parte del suo corpo che non fosse dolorante: avrebbe tanto voluto lamentarsene, ma le parole non gli uscivano di bocca. Anche le corde vocali gli facevano male. Durante la sessione doveva aver urlato parecchio.
– Allora… com’è andata al lavoro?, chiese Cinzia.
Angelo esalò un “Bene” gracchiante, poi guardò nel piatto con la bocca spalancata e si specchiò nella vellutata di carote surgelata che la moglie gli aveva preparato. Il riflesso nel piatto proiettava una sagoma nera dai contorni poco definiti. Nella fondina la sua figura si univa al lampadario che pendeva spento sopra la sua testa.
– Vuoi mettere anche te il casco? So che ce l’hai addosso tutto il giorno per lavoro, ma magari ti aiuta a staccare.
Angelo emise un grugnito di dissenso mentre si infilava una cucchiaiata di vellutata nella bocca aperta. Al posto di chiudere le labbra e ingoiare, Angelo le lasciava aperte e deglutiva solo una piccola parte dei bocconi, il cui resto ricadeva nel piatto assieme alla saliva che gli scivolava giù dal mento.
– Da quante ore eri chiuso nello sgabuzzino?
Angelo sbrodolò “quindici” in risposta. Continuava a infilarsi cucchiaiate di vellutata in bocca mentre sbavava con la sguardo fisso alla parete di fronte.
– Io tra un’oretta attacco. Oggi ho il turno da dieci ore, credo che finirò alle undici… se vuoi possiamo parlare, dopo.
La testa di Angelo scattò a destra attraversata da una scossa nervosa. Pian piano stava riacquistando il controllo di sé: cominciava a chiudere la bocca e ingoiare la vellutata con ordine, e anche il rivolo di saliva che colava dal mento stava diminuendo. Stava tornando anche il controllo delle orbite, che direzionò verso il volto della moglie per metterlo a fuoco.
Finalmente la vedeva di nuovo, per modo di dire.
L’unica parte visibile del volto di Cinzia era la bocca, presa da leggeri spasmi che torcevano di continuo la posizione delle labbra.
Con grande fatica, balbettando più volte su tutte le “a” e le “d” della frase, Angelo disse:
– Allora aspetto che arrivi te prima di addormentarmi.
Aveva un gran mal di testa, Angelo. La luce giallognola della cucina gli faceva male agli occhi e la lingua bruciava come se qualcuno ci avesse appoggiato un tizzone ardente. La bocca era piena di saliva che ingoiò faticosamente, sopprimendo un rigurgito acido.
Cinzia stava muovendo le mani in alto e in basso come se stesse sfiorando un cilindro invisibile per capire meglio la sensazione che provocava il contatto con la sua superficie. Angelo balbettò ancora, ma in maniera più lieve, stavolta solo sulla “c”.
– Cosa stai vivendo?
La pelle degli alberi, una realtà informativa sulle cortecce delle diverse specie di alberi. È per il libro che sto scrivendo, lo sto ambientando in Russia: volevo capire cosa volesse dire toccare una betulla. È molto importante nell’economia del mio libro, sai?

Angelo fece mente locale per ricordarsi cosa facesse sua moglie, ma più si cercava di sforzarsi, più era chiaro che non ci sarebbe riuscito.

Preso dallo sconforto, optò per formulare una domanda generica.
– A che capitolo sei arrivata?
– Capitolo? No, sono ancora in fase di ricerca. I caschi mi stanno aiutando moltissimo. Credo che riuscirò a rendere le descrizioni molto più realistiche rispetto a quelle del mio ultimo libro.
– Ne sono sicuro. Cos’hai fatto fino adesso?
– Oh, nulla di che. Mi sono svegliata presto e ho pulito casa da cima a fondo. Riordinare gli spazi aiuta a chiarirsi le idee.
Cinzia si sporse in avanti e senza togliersi il casco mosse le mani alla ricerca del bicchiere. Al posto di afferrarlo lo urtò leggermente, facendolo cadere a terra. Il bicchiere scoppiò a contatto col pavimento. Cinzia guardò in direzione del bicchiere rotto senza togliersi il casco, continuando a sfiorare con le mani il tronco dell’albero.
– Scusami… quando finisco con la ricerca per il libro sistemo io.
Fu allora che Angelo esaminò lo stato della cucina: le piastrelle erano coperte da batuffoli di polvere che strisciavano sul pavimento accanto a cocci di vetro e ceramica. Il lavabo era colmo di stoviglie sporche e sul piano cottura cresceva della muffa bianca e verde.
– Hai pulito da cima a fondo?
– Sì, anche il secondo piano.
– Secondo piano? Viviamo in un appartamento, no?
– Guarda che esistono anche appartamenti a due piani. Piuttosto, come va la stesura del tuo libro?
– Il mio libro?
– Sì, il tuo libro. Quello di cui mi parlavi ieri, con i soldati, il sole e tutto il resto.
– Non sto scrivendo nessun libro, Cinzia.
– Su, non fare lo scemo.
– Ma non eri tu quella che stava scrivendo un romanzo?
– Io? Io non sto scrivendo nessun romanzo, Angelo.
La luce della cucina sembrava irreale. Dalle finestre entrava un bagliore freddo che si rifletteva sulle superfici di vetro della stanza. Tutto l’ambiente era invaso da una tonalità che si avvicinava al blu, e le cose, fuori dal condominio, non potevano andare meglio di così.
Per strada faceva freddo, e il pomeriggio era accarezzato da un vento bollente che intorpidiva un branco di cani randagi sdraiati sotto un porticato che costeggiava la strada. Le vie erano deserte, e le auto dell’esercito facevano ronde con le sirene accese, sollevando odore di polvere da sparo. C’era puzza di guerra, nell’aria.
Cinzia si tolse il casco e lo poggiò sul tavolo. Gli occhi, rossi per la sclerite e momentaneamente strabici, riuscivano ad essere comunque stupendi. L’iride sinistra era di un azzurro così chiaro da essere quasi trasparente, mentre l’altra era nera come la pece; aveva il colore dell’oceano. Ora ricordava: insieme avrebbero avuto un figlio.
– È meglio che cominci a prepararmi, disse Cinzia.
Angelo non disse nulla e la seguì barcollare fino in camera, dove la guardò sistemare l’olocamera di fronte al letto mentre il computer si accendeva. Cinzia si spogliò fino a rimanere in mutande e a seno scoperto. Accese una lampadina rossa e si sistemò sul letto, poi guardò nella sua direzione con gli occhi ancora infiammati.
– Angelo?
– Sì?
– Aspettami sveglio, ok? Stasera parliamo.
– Va bene.
– Quando esci chiudi la porta per favore.
Angelo accostò la porta allo stipite e poi la chiuse del tutto, abbassando la maniglia e risollevandola piano, senza fare alcun rumore. Camminò per tutto l’appartamento in cerca delle scale che conducevano al secondo piano ma non le trovò, così si sporse alla finestra per capire a che piano si trovasse.
Il cortile del condominio era avvolto da una nebbia densa. La pavimentazione di cemento era invasiva, e a decorare lo spiazzo non c’erano né aiuole, né alberi. Angelo si sporse a contare i piani. Piano terra, primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono, decimo, undicesimo, dodicesimo, tredicesimo… Tredicesimo piano. Ma quant’era alto quel palazzo?
Angelo guardò verso il cielo. Le nuvole grigie si concentravano attorno al vertice dell’edificio, inghiottendolo. A fianco del condominio ce n’erano altri molto simili il cui perimetro era delimitato da ringhiere di metallo e filo spinato; al piano terra non sembrava esserci un’entrata, o un’uscita. Gli venne voglia di uscire di casa a controllare, così cercò la porta d’ingresso ma non riuscì a trovare nemmeno quella.
Eppure l’appartamento sembrava così piccolo… Qualcosa gli stava sfuggendo. Angelo andò verso la camera da letto per chiedere spiegazioni a Cinzia. Quando Angelo aprì la porta, la luce rossa gli investì gli occhi, più intensa di prima.

Cinzia era sdraiata sul letto con le gambe aperte e le mani aggrappate alle lenzuola che stropicciava, gemendo.

Sopra di lei, a penetrarla, c’era l’ologramma di un uomo grasso sulla cinquantina. La figura era di un azzurro pallido, eterea. Ad Angelo vennero i brividi: sembrava che sua moglie stesse scopando un fantasma. Angelo guardò qualche secondo, poi richiuse piano la porta abbassando e alzando la maniglia il più piano possibile per non disturbare Cinzia: quella sera avrebbero parlato e Angelo le avrebbe chiesto spiegazioni riguardo al secondo piano. Tornato in cucina, Angelo si sedette sul divano e guardò in direzione del tavolo; sopra c’era ancora il casco di Cinzia, privo di vita. Angelo esalò un sospiro, prese il casco e, dopo essersi sdraiato, se lo infilò in testa.

La foresta era ricca di odori e il sole era alto nel cielo.
Le foglie delle betulle formavano un tappeto caldo sul quale era bello camminare e ad Angelo venne voglia di alzare lo sguardo.
Un pettirosso sgonfiava il torace intonando un cinguettio dilatato.
Angelo appoggiò la mano su un tronco e cominciò a sfiorarne la superficie.

C’era silenzio.

La corteccia era liscia e ruvida allo stesso tempo, e in un paio di punti riportava delle ferite che non avevano avuto bisogno di punti di sutura per guarire.

Angelo tolse la mano dalla corteccia e si gustò la calma della foresta camminandole attraverso, sperimentando rumori rari e sensazioni di neve. Finì per arrivare sotto un salice piangente completamente spoglio le cui radici ritagliavano uno sezione rettangolare.

Angelo decise di sdraiarsi e chiudere gli occhi per un po’, lasciandosi il tempo di studiare gli odori che gli entravano nelle narici. Rannicchiato in posizione fetale, Angelo era sul punto di addormentarsi quando un altro pettirosso riprese a cantare.

Dopotutto, pensò Angelo, è bello vivere nel XXI secolo.