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Alessandra Pioselli

Chi è Alessandra Pioselli, direttrice dell'Accademia Giacomo Carrara di Bergamo

Scritto da Rossella Farinotti il 8 maggio 2018
Aggiornato il 9 maggio 2018

Luogo di residenza

Milano

Attività

Curatore

Abbiamo intervistato Alessandra Pioselli partendo dall’ultima collaborazione tra l’Accademia Giacomo Carrara di Bergamo, di cui lei è direttrice dal 2010, e la GAMeC, in particolare sul nuovo Public Program, per soffermarci su progetti speciali attuati dall’Accademia – come Spazio Giacomo, la mitica vetrina su strada di via Quarenghi dove gli studenti alternano progetti di condivisione con la cittadinanza del luogo -, e sviscerando le peculiarità del sistema accademico italiano. Argomenti interessanti che la Pioselli tratta con il rigore e la passione che la contraddistingue da diversi anni all’interno del panorama della critica italiano, focalizzando la sua ricerca sull’Arte pubblica dagli anni Sessanta e, come racconta per l’ultimo progetto in via di sviluppo con Farmacia Wurmkos, sulle residenze per artisti in luoghi particolari tra nord e sud Italia. Un percorso denso in cui il lavoro di squadra risulta fondamentale per “restituire alla rete una linfa che le rende viva nel tempo”.

GAMeC Public Program
GAMeC Public Program

Zero: Partirei dall’ultimo progetto condiviso che è stato realizzato tra la GAMeC e l’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo.
Alessandra Pioselli:
con il nuovo direttore Lorenzo Giusti, alla GAMeC dal primo gennaio 2018, abbiamo pensato alla possibilità di una collaborazione tra le due istituzioni. La presenza di una galleria d’arte moderna e contemporanea, con una naturale vocazione alla ricerca dell’arte visiva e contemporanea, e di un’Accademia che condivide gli stessi obiettivi all’interno di una città come Bergamo, è una condizione che indubbiamente può aprire degli scenari di sviluppo. Abbiamo strutturato un progetto condiviso: dato che le mostre che Giusti andrà a curare alla GAMeC hanno una parte di “public program”, è nata l’idea di lanciare una piattaforma di collaborazione finalizzata all’ideazione di un programma pubblico che coinvolga gli studenti da un lato, ma anche un pubblico più generale, la cittadinanza, dall’altro, a partire dai temi della mostra e in sintonia con i programmi dell’Accademia.

Quindi, in maniera naturale, avete unito delle mansioni. Da quasi dieci anni sei direttore dell’Accademia di Bergamo che è un’istituzione piccola, ma complessa: e una peculiarità del tuo approccio lavorativo è proprio il discorso di condivisione. Diamo per scontato che delle realtà affini possano condividere un progetto, quando sappiamo che in Italia si tende ad attuare più un discorso individualista sulle cose.
Le reti si creano quando c’è la volontà di farlo e un interesse, una strategia, una visione che si desidera condividere con altri. Non si crea automaticamente e ci devono essere gli strumenti per portare avanti questi processi. Né il desiderio, né i progetti ideati bastano da soli. Bisogna rendere sostenibili le idee per fare in modo che non rimangano meramente sulla carta.

Ci vuole un lavoro di squadra.
Non è facile: bisogna capire quali possono essere i campi di condivisione e interesse comune e fare in modo che si trasformino in una vera e propria progettualità. Non parlo solo di sostenibilità economica, ma principalmente progettuale. Una capacità di restituire alla rete una linfa che le rende viva nel tempo.

GAMEC

Ho visto infatti che avete chiamato artisti e critici e professori, ci sono dibattiti e talk diversi nel Public Program.
Si, si sta strutturando in questo modo: per il 2018 che c’è un primo Public Program che si è aperto a metà marzo e si concluderà a maggio, e poi un secondo che partirà in autunno in concomitanza con la mostra che Lorenzo Giusti curerà, insieme a Sara Fumagalli, sul tema della materia dal titolo Black Hole. Arte e matericità tra informe e invisibile. Per i primi mesi del 2018 fino a maggio il “Public Program” si è articolato in un ciclo di incontri con artisti, rivolto a una generazione di artisti italiani e stranieri, sulla base del programma di seminari che l’Accademia aveva già strutturato e degli innesti di GAMeC.

Quella stessa generazione di cui parli molto bene nell’intervista che ti hanno recentemente fatto sul Sole 24 ore, no? È importante che i “nostri” bravi artisti italiani contemporanei insegnino nelle Accademie, sembra banale, ma non accade spesso. Sono ancora molto chiuse.
Si e, a mio parere, quando si dice che nelle Accademie italiane non insegnano artisti, come al solito, bisogna verificare le informazioni e allontanarsi dai luoghi comuni.

Mi ricordo che infatti mi raccontavi che Bergamo, ad esempio, essendo una realtà più piccola aveva magari una libertà di azione maggiore rispetto ad altre burocraticamente più incastrate, penso a Brera. L’Accademia di Bergamo è comunale?
L’Accademia di Bergamo è pubblica e vi insegnano artisti come Salvatore Falci, Liliana Moro, Ettore Favini, Riccardo Benassi, Invernomuto e tanti altri che non mi vogliano male se non cito tutti… Sì, la situazione nazionale ha luci e ombre, ci sono aperture e chiusure, molti problemi ma altrettante spinte al cambiamento. Rimangono profonde differenze tra le accademie che non possono essere sempre ricondotte a un’unica cornice che le appiattisce. In realtà rispettiamo gli ordinamenti ministeriali: i nostri docenti, da parecchi anni a questa parte, sono entrati tutti attraverso bando pubblico. Tendo a sottolineare che non siamo noi interni a scegliere gli insegnanti: è una selezione fatta pubblicamente. Gli artisti presenti sono stati selezionati perché si sono messi in gioco attraverso il bando pubblico. In questo modo è possibile selezionare docenti che siano portatori di una visione che si sposi in maniera ottimale con una programmazione scolastica. Anch’io sono entrata in Accademia facendo un bando pubblico.

Insegnavi ancora all’Accademia di Brera in quel periodo?
Si, ho lasciato Brera e sono arrivata a Bergamo. Abbiamo di media 150 studenti. Sono pochi per Brera, come una classe di fotografia praticamente. È chiaro che una situazione così, più piccola e anche un po’ più indipendente rispetto a tante questioni nazionali, sicuramente è in una posizione diversa, anche se vuoi fragile rispetto al sistema nazionale. Ci sono i pro e i contro.

Tornando al Public Program: Ettore Favini, che insegna lì a Bergamo, mi ha fatto vedere la presentazione del primo talk dove era invitato Patrick Tuttofuoco. Come è andato?
Il primo incontro infatti era il 12 marzo con Patrick e Favini. Gli artisti sono venuti in Accademia anche dietro invito dei miei colleghi come, appunto, Ettore Favini, e poi Liliana Moro, Salvatore Falci, e critici d’arte come Fabiola Naldi o Claudio Musso. Poi sono venuti Riccardo Baruzzi, moderato da Claudio Musso, a seguire Giuseppe Gabellone ancora con Ettore Favini, Michel Blazy in conversazione con Lorenzo Giusti, e Michael Hoepfner. Alcuni di questi incontri con artisti prevedono una parte più specificatamente laboratoriale, rivolta esclusivamente agli studenti. Baruzzi per esempio fa un seminario di tre giorni, così come Ilenia Caleo e Silvia Calderoni di Motus a maggio.
La seconda fase, da ottobre in avanti, sarà strutturata sul tema della mostra e dunque avrà un carattere più interdisciplinare puntando a ricercatori professionisti, docenti universitari o teorici in genere che attraversano diverse discipline tra filosofie e teorie estetiche dell’arte, toccando altre tematiche come la scienza, il suono, la materia.

La città come accoglie questi eventi? Bergamo ha diverse realtà che trattano il contemporaneo, penso a Contemporary Locus, The Blank … il pubblico partecipa?
Con Tuttofuoco c’erano tanti studenti e il pubblico generalista era in minoranza, anche perché gli incontri si sono tenuti in un orario lavorativo. Bergamo ha diverse realtà attive e interessanti. The Blank ha fatto molto per mettere in connessione le situazioni e creare un pubblico. In modo diverso, Contemporary Locus anche. Bergamo ha diversi collezionisti. Credo che ci siano ancora margini per allargare il pubblico, la partecipazione è ondivaga, dipende dagli eventi.

Spazio Giacomo
Spazio Giacomo

Parlando del tuo aspetto più caratteristico e storico, che è quello dell’Arte pubblica, ricordo che avevi iniziato a far collaborare gli studenti al di fuori dell’Accademia con realtà come Kilometro Rosso. In Italia è quasi avanguardistica come attitudine: applicare il mestiere dell’artista ad altri ambiti e discipline. Con l’Accademia avete sviluppato altri progetti riguardanti la sfera pubblica?
Il progetto con Kilometro Rosso, Artist-in-residence Kilometro Rosso, sta proseguendo. Si sta tenendo ora la terza edizione. Dal 2016 stiamo sviluppando anche un altro progetto che non abbiamo comunicato molto, perché è partito con un fase sperimentale. Abbiamo aperto in via Quarenghi uno spazio chiamato Giacomo. Il nome è un riconoscimento affettivo al conte Giacomo Carrara, fondatore dell’Accademia alla fine del Settecento. È situato nel quartiere cosidetto multietnico della città, una zona in trasformazione, vivace ma anche considerata talvolta problematica. Bergamo ha una folta comunità di nordafricani, bengalesi, sudamericani. Ci sono comunità storiche di immigrati. Il quartiere Quarenghi è nel centro storico di Bergamo, non è periferico. Un tempo aveva una connotazione popolare e oggi lo abitano molti anziani. A volte il cambiamento provoca malumori negli storici abitanti, ma ci sono anche tante espressioni positive. Il Comune di Bergamo ci ha assegnato due spazi vicini, di cui uno attraverso un privato che aveva un negozio sfitto. In questi due grandi open space abbiamo iniziato nel 2017 una programmazione, sotto la denominazione Progetto Giacomo.

Viene gestito dagli insegnanti dell’Accademia?
’obiettivo del Comune di Bergamo era di avere un presidio culturale in questa zona che potesse intercettasse gli abitanti in modo diverso rispetto alle politiche pubbliche più tradizionali di intervento. Spesso a Bergamo si parla di via Quarenghi solo in termini di sicurezza mentre non si colgono le note positive. Giacomo è un laboratorio di ricerca artistica, adibito a attività didattiche e culturali, officina per progetti, sede espositiva e studio per giovani artisti. Come corpo docenti abbiamo deciso di non imporre un programma ma di fare in modo che Giacomo diventasse un luogo di sperimentazione e di autoformazione per gli studenti e i giovani appena diplomati, e che generasse delle relazioni con l’intorno in maniera informale, attraverso una presenza quotidiana, non invasiva. Una volta all’anno realizziamo la mostra delle opere e dei progetti presentati come tesi di diploma. Per il resto, abbiamo scelto di lanciare due format annuali: due bandi rivolti a studenti e diplomati. Un bando è per l’uso di una parte dello spazio come studio. L’altro bando è aperto a progetti di ogni genere, mostre, performance, progetti curatoriali, da tenersi presso Giacomo, nello spazio espositivo o nella via ma non vi sono vincoli.

L’Accademia produce questi progetti quindi?
Si e sono quasi sempre progetti di gruppo. Questo è interessante da notare: la condizione spaziale di via Quarenghi e il modo in cui abbiamo formulato il bando hanno incentivato gli studenti a lavorare in gruppo.

Lavorare per una comunità spinge a lavorare in gruppo.
Esatto. Non abbiamo imposto un lavoro di gruppo sulla comunità, sarebbe stato un diktat troppo rigido, i progetti potevano essere di qualunque tipo e diversi di questi in qualche modo sono andati a lavorare sul territorio in maniere del tutto inaspettate, indirette, traslate. È accaduto, nel corso di quest’ultimo anno, che gli studenti in autonomia abbiano iniziato a intessere delle relazioni informali con quella situazione.

E la ricezione da parte del territorio?
La ricezione è molto curiosa. Ci sono altre piccole realtà culturali molto contente della nostra vicinanza, perché così si rafforzano tutti. E gli studenti sono diventati anche una nuova comunità di consumatori, aree dove solitamente entrano solo famiglie del luogo. Quella degli studenti è una ulteriore presenza anomala. Poi, a seconda dei progetti che sono stati sviluppati, gli studenti hanno a loro volta coinvolto altre persone. L’anno scorso, per esempio, un neo costituito gruppo di ragazze e ragazzi, 8 in tutto, che si chiama Roccia Castello, ci hanno chiesto di occupare la parte espositiva dell’ex negozio, per una settimana. Lì è tutto vetrine. Hanno chiesto di rimanere fissi, anche a dormire, lavorando di giorno e di notte, stabilendo un confine non oltrepassabile e vivere con le sole risorse del quartiere. Se qualcuno, per caso, avesse dovuto valicare il confine, avrebbe dovuto indossare una sorta di maschera, come riconoscimento, di protezione e di richiamo identitario.

Come in The Beach, o The Village …l’idea di isola, di confine, che rappresenta anche un elemento di denuncia nell’essere diverso e oltrepassare un confine.
Esatto. A noi questo progetto era piaciuto molto. Ha funzionato tantissimo: i ragazzi sono stati osservati dal quartiere per una settimana. La cosa bella è che durante questo periodo hanno organizzato una serie di micro situazioni – dal cucinare al fare musica in vetrina – coinvolgendo i ragazzi del quartiere a suonare con loro. Delle jam session improvvisate. Una sera hanno offerto il te all’operatore ecologico che pulisce le strade di notte, perché si è accorto di loro che lo filmavano.

mostra studenti c/o GIACOMO_2017
mostra studenti c/o GIACOMO_2017

Un po’ alla Franco Valieri. O, come dice Mazzucchelli, la vera percezione a sorpresa che l’arte pubblica restituisce a chi non se lo aspetta.
Esatto, e di progetti così ce ne sono stati altri. “Giacomo” è stato un banco di prova e di auto-formazione per gli studenti, un generatore di problemi, dubbi e visioni che potranno confluire in eventuali processi e creazione artistiche. Libertà progettuale, perché siamo un istituto di formazione e le idee nascono da questo tipo di libertà.

Avete invitato degli artisti in Giacomo?
Si, a dicembre per esempio è venuta Beatrice Catanzaro, ha fatto un seminario sul tema della relazione, del confronto con l’altro, dei processi d’ascolto tratti dalla sociologia e riportati criticamente alla pratica artistica.

L’aspetto pubblico della sorpresa, di fatto, è tra i più interessanti.
Abbiamo avuto ospiti inattesi che vengono a sbirciare cosa accade.

Arte nello Spazio Urbano, Alessandra Pioselli, J. & Levi
Arte nello Spazio Urbano, Alessandra Pioselli, J. & Levi

Vivi tra Bergamo a Milano come pendolare? Cosa pensi della scena artistica contemporanea milanese che si è sviluppata negli ultimi anni?
Mi divido, metà a Milano e metà là. Milano mi sembra una città parecchio viva se contiamo le fondazioni private che fanno ottime mostre, mi riferisco innanzitutto a Prada e all’Hangar Bicocca, e alle tante gallerie che hanno una ottima programmazione; a miart che, grazie ai giovani direttori Vincenzo De Bellis e poi Alessandro Rabottini, è cresciuta molto, ha molti collezionisti e sono nati tanti spazi indipendenti. E poi FM, lo spazio e la ricerca di Marco Scotini sono molto interessanti per Milano. Anche i miei studenti sono dentro ad alcune situazioni di spazi indipendenti. Questo è sintomo di vitalità. Il PAC ha comunque una programmazione di lungo corso su una visione. Tanti artisti della mia generazione e più giovani stanno tornando a Milano a vivere. Bisogna però fare progetti più a lungo termine, su grande scala, questo è il prossimo passo che dovrebbe sviluppare la città.

E il Museo del Novecento? Che ora si sta attivando sul contemporaneo, pensa alla mostra di Mazzucchelli in corso. Mi ricordo che avevi curato una mostra molto interessante, Fuori! Arte e spazio urbano 1968-1976.
Si, nel 2011 con Silvia Bignami che ora è nel board curatoriale del PAC.

Fuori! Arte e spazio urbano Museo 900
Fuori! Arte e spazio urbano Museo 900

E progetti futuri?
In questo momento sto lavorando con Pasquale Campanella, portando avanti un lavoro che era già iniziato da qualche tempo nel 2017. Si tratta di un progetto di costruzione di narrazione e di documentazione sulle residenze di artisti e progetti territoriali in Italia che stiamo realizzando a Farmacia Wurmkos. Progetti che hanno alle spalle una lunga storia. Per indagare i confini tra gli obiettivi, le dichiarazioni e gli intenti.