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Andrea Segre

Un viaggio necessario nel cuore meccanico della Laguna di Venezia, documentando paesaggi industriali e frammenti di vite invisibili. Con il regista qualche retroscena e molte riflessioni su Porto Marghera oggi.

Scritto da Redazione Venezia il 27 novembre 2019

Data di nascita

6 settembre 1976 (47 anni)

Attività

Regista

Ebbene sì, esistono ancora le fabbriche. Tanto più a Porto Marghera, dove su 2000 ettari di zona costiera che guarda in faccia la laguna di Venezia circa 1.400 sono occupati da attività industriali, commerciali e terziarie, con 40 km di strade interne, 135 km di binari ferroviari, 18 km di canali portuali. Cent’anni fa, come canta in “Ti sa Miga” un certo Antonio D’amico (uno che non troverete mai nei suggerimenti delle playlist su spotify ma che rappresenta una colonna del “Canzoniere Popolare Veneto”) in quest’area è caduto un pianeta infuocato. Ancora oggi dominano il petrolchimico, l’Eni, la Fincantieri; spuntano centri direzionali, darsene; ciminiere, silos e altri sarcofaghi di cemento armato rimangono immobili, sospesi nel tempo, in attesa di bonifica, tra  locali storici e feste abusive. In mezzo ai container di Fusina scorrazzano famiglie di cinghiali, dall’altra parte surfisti solcano le onde e li vedi sbucare dall’invalicabile via dei Petroli, pescatori setacciano i fanghi, programmatori e manager macinano utili da capogiro: questo è davvero “Il pianeta in mare”. Il regista Andrea Segre (classe 1976, nato a Dolo, residente a Roma) ha presentato il suo nuovo documentario all’ultima mostra del cinema di Venezia. Il film è ancora nelle sale e vale la pena di vederlo. Perché cosa accade veramente qui, dietro ai cancelli delle fabbriche, nelle cucine dell’ultima osteria del “Pianeta Marghera”, lo sa solo chi ancora ci lavora, o chi decide di infilarci il naso. Non è il solito safari nei luoghi dell’abbandono. Non è archeologia industriale, natura morta, sguardo estetizzante. Mimetizzandosi con l’ambiente, con i suoi silenzi, le sue inquietudini, le sue incertezze, il film rivela molte delle urgenze sociali, economiche, ambientali del nostro territorio e del nostro tempo. Lo fa documentando la vita pulsante in questo enorme groviglio di tubi, strade e lamiere. Lo fa attivando lo sguardo degli spettatori, invitandoli a farsi parte attiva di un processo cognitivo sul presente. Lo fa a partire da un canto dialettale del XVII secolo dal titolo “Peregrinazioni Lagunari” e da una scena, emblematica, che racchiude con inedita forza espressiva la dicotomia turismo-industria della città metropolitana. L’icona di una gondola sullo skyline di Porto Marghera, con i vogatori che remano a pieni polmoni verso non si sa bene dove…

   Se ci provassimo milioni di volte non ce la faremmo a trovare un’immagine più eloquente: come è uscita quella sequenza?
«Il motivo per cui mi piace fare il cinema documentario è perché la realtà, se fai con calma, se la guardi, se la cerchi, sa dare delle sintesi simboliche più forti di quelle che si creano artificiosamente. Sia ben chiaro: nella storia dell’arte ci sono ovviamente grandi capacità artistiche nel creare delle sintesi simboliche. Però quando avvengono nella realtà e tu sei pronto a coglierle, bhè è un’emozione in più. Sapere che quella gondola non l’ho messa io lì per fare quella ripresa, rende quel messaggio un po’ più forte secondo me. Se fosse stata una mia idea forse avrebbe funzionato lo stesso, l’effetto sarebbe stato simile, però chissà se mi sarebbe venuto in mente quel movimento preciso della gondola che fa un giro intorno a se stessa e poi se ne va…».


Dov’eri? Come hai reagito davanti a quella scena?

«Ero al Tronchetto. Ho pensato che era una gran bella inquadratura e stava accadendo qualcosa di bello. Ho immaginato subito che sarebbero state innumerevoli letture in diverse direzioni, ma non mi son fermato troppo a leggere e definire quelle letture dentro me stesso. Ho sentito che era una cosa che rappresentava bene tante tensioni e tanti significati, quindi l’ho filmata con grande attenzione estetica per avere l’intero panorama e il movimento».

   Prima di approfondire il film, diciamolo: ma quanto bella è Porto Marghera?
«Ha un grande fascino estetico e questo è stato uno dei motivi per cui ho voluto e volevo in realtà già da tempo fare questo film. Nella sua indubbia follia e pericolosità costituisce una tensione estetica unica nel suo genere. A differenza di altre zone industriali è molto variegata, in termini di luoghi, architettura, produzioni, tipologie. A fianco c’è Marghera, che non ho raccontato molto nel film, ma che inizialmente avrebbe dovuto essere presente. È una cittadina che ha zone e qualità estetiche molto migliori di tante cittadine venete, la parte centrale di Marghera è una commistione interessante tra l’architettura veneziana e la terraferma. C’è poi una differenza tra guardare tutto questo da fuori ed entrarci dentro, cercare di capirlo e raccontarlo».

   Com’è l’umanità che popola questo luoghi?
«È un’umanità molto disorientata. Piena di malinconia, perché non sa se si trova in un posto importante, non sa cosa succederà di quel posto, non sa se ha senso essere lì. Sa di essere dentro un pezzo di passato che ha creato illusioni e delusioni, ferite, dolori. Sa di appartenere ad un mondo che per molti equivale a morte ed inquinamento, però la loro vita e lì. Molte di quelle vite sono in transito in attesa di capire il loro futuro, se continueranno a lavorare. Altri come i marinai sono in transito culturalmente. Anche i manager dell’e-commerce sono di passaggio. È un popolo disorientato, non è un corpo sociale e ideologico unitario. Questo disorientamento produce una malinconia che ho provato a raccontare nel film».

   Quanto sentivi come necessario accendere un faro sulla realtà del polo industriale veneziano?
«Immaginavo che lo fosse ma l’ho capito man mano che la gente mi diceva: “ma cosa vai cercando?” segnalando così il livello di distrazione e disinteresse del paese verso questo e tanti altri luoghi simili».

   Comunque sia, noi ti ringraziamo: perché a Venezia con il Mose si è registrato il più grande scandalo corruttivo degli ultimi decenni e il suo racconto ha occupato solo per qualche giorno le cronache nazionali. Lo stesso vale, forse, per l’ultima disastrosa acqua alta che ha mostrato una scarsa consapevolezza comune sui problemi della città. In sintesi: perché qui non ci “caga” nessuno?
«Tendenzialmente credo sia una sindrome di tutte le province italiane, vale forse anche per i molisani, i calabresi, gli abruzzesi. Anche loro probabilmente pensano di non essere “cagati”. Essendo questo un paese che ha centri di potere politico-culturale molto forti, come Roma e Milano, chiaramente le province hanno questa sensazione. Per quanto riguarda il Veneto, la cosa abbastanza vera è che ci sono pochi non veneti che lo raccontano, quasi come fosse una narrazione ed esclusivo appannaggio dei local. È indubbio che trent’anni di fondato e solido potere leghista hanno dato la sensazione che qui ci sia un estremo campanilismo e un atteggiamento di chiusura che ha reso un po’ antipatico il punto di vista. La trasformazione del pensiero leghista in senso nazionale potrebbe modificare questo scenario. Poi per Venezia c’è il peso di un luogo troppo vissuto come simbolo e icona, la sua immagine ne offusca la realtà».

   Come è stato accolto “il Pianeta in Mare” nel resto d’Italia? E da noi?
«Chi ha seguito il film fuori dalla nostra regione, l’ha vissuto come riflessione che partendo da Porto Marghera va oltre. Attraverso l’immersione in una realtà specifica aiuta anche a riflettere su altro. Certamente ci sono alcune sfumature, odori, puzze che vengono più colte da chi conosce il contesto culturale e sociale in cui è girato. Questo succede per tutti film. Il pianeta in mare è andato molto bene in Veneto, più che in altre parti, ma è un rapporto col territorio, una localizzazione. che riguarda anche molti altri film. Gli unici film che non hanno un vincolo territoriale sono quelli di Roma e Milano, oppure quelli su mafia, camorra ‘ndragnheta, che funzionano diffusamente. Per tutti gli altri il legame con la loro provincia di riferimento è più forte. Comunque ricordo la prima a Milano cinema Anteo, strapieno, tutti coglievano anche gli aspetti più ilari ed è un chiaro riferimento del fatto che il messaggio arriva comunque oltre al contesto culturale».


Come sei riuscito ad entrare in quei luoghi così inaccessibili?

«Il peso del progetto, l’appoggio del ministero, dell’Istituto Luce, la contingenza del centenario hanno certamente contribuito, poi c’è stato anche un effetto catena. Man mano che una società diceva si, lo facevano anche le altre. Credo di aver intercettato in qualche modo anche un’esigenza delle aziende stesse, di attirare attenzione un luoghi che rischiano di non avere un progettazione chiara. Sicuramente a Eni interessa capire cosa succede in quella zona, a Fincantieri forse meno perché vive in un settore a sé stante. Ma tutti ci tengono a capire cosa accade intorno a loro. In più ho proposto forse un punto di vista diverso: usare l’occasione dei 100 anni per parlare del presente e non del passato. È accaduta una cosa abbastanza unica: mi hanno lasciato veramente libero di girare, di filmare quello che incontravo, quello che vedevo nei cantieri. I paletti che mi sono stati posti erano legati semplicemente alla nostra sicurezza e incolumità personale. Non è stato facile e c’è voluto un tempo di trattativa, ma non ero solo, la mia richiesta arrivava sostenuta da realtà che hanno un peso istituzionale del paese, questo ha aiutato i dirigenti di queste aziende a sentirsi tutelati. Quello che chiedevo, comunque, era di essere libero. E l’ho ottenuto, pur avendo un curriculum di regista che da sempre ha uno sguardo critico sulla realtà. Il fatto di non essere proprio un regista embedded alle istituzioni, poteva giocare a mio sfavore, eppure ho ottenuto la possibilità di andare in giro per tanti giorni, liberamente, per tante ore, senza neppure che questo permesso fosse vincolato ad un controllo preventivo del montaggio dopo le riprese. Una preview per le aziende alla fine c’è stata, ma solo per condividere il risultato finale».

   Come hanno reagito i dirigenti aziendali a questa prima proiezione?
«Nessuno mi ha criticato esplicitamente per aver mostrato una parte di quel mondo produttivo rispetto ad altre. Sulla tematizzazione di alcuni problemi di prospettiva e di sostanza di questa zona industriale probabilmente c’è una visione comune».

   Bengalesi, senegalesi, romeni, chioggiotti, camionisti, manager: come è nata la vasta rappresentanza di umanità che popola il film. Avete fatto un casting?
«In una fase embrionale del lavoro c’è stata una specie di casting, ma in realtà poi man mano che mi muovevo nella zona industrale ho potuto scegliere le persone che incontravo. Per selezionare dei soggetti in un mondo dove lavorano migliaia di persone ci si affida un po’ al sesto senso, a uno sguardo, un modo di dire, un modo di essere. Senza risparmiare il tempo e la fatica di trovare la persona giusta. Questo non funziona con un casting a chiamata».

   Anche i dialoghi sono completamente spontanei?
«Tutti».

   Il pianeta in mare è un documentario sulle persone, sui subappalti, sulla crisi, ma offre anche un incredibile patrimonio visivo in bilico tra il (retro)futurismo di Metropolis, la serialità di Tempi Moderni di Chaplin. Quelli erano film che aiutavano a comprendere la contemporaneità e a immaginare il futuro: oggi quanto è necessario per capire i nostri giorni e le nostre rotte vedere da vicino gente che salda, rimorchiatori che guidano enormi navi container, grovigli di tubi, osterie dimenticate da dio?
«Sapere che ci sono 2500 persone che tutti i giorni saldano il metallo al freddo, sotto la pioggia, al caldo, e lo saldano a mano, respirandone i vapori, o sapere che ci sono 1000 operai che tirano cavi e tubi per costruire una nave, raffigurando queste immagini davanti agli occhi, può aiutare anche a cambiare alcune prospettive di analisi della realtà, soprattutto quando siamo bizzarramente convinti che quella fatica materiale non ci sia più. Detto questo oggi il mondo dentro ai cantieri è ben diverso, per la diversa composizione etnica, per il diverso rapporto tra tecnologia e lavoro, per la diversità anche dell’organizzazione dell’azienda con questo sistema di appalti e subbappalti che porta alla parcellizzazione del processo produttivo che ha chiaramente frammentato la collettività. Fuori dalle fabbriche la vita è molto più atomizzata e individualizzata».

   Parliamo dell’ordine delle cose: quel film (un impegno che in realtà è una costante della tua filmografia) è riuscito secondo te a sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sul fatto che i fenomeni migratori non sono un rubinetto da aprire e chiudere? Che quando si pensa di risolvere il “problema” limitando gli sbarchi a pochi chilometri da noi se ne creano altri di abominevoli?
«Se uno deve vedere i risultati in termini di macro-politica, il film come tanti altri film, articoli e reportage su questo tema, hanno tutti fallito. Non siamo riusciti a modificare le politiche migratorie e la politica di esternalizzazione dei confini. Dopodichè fosse anche sbagliato pensare che questo sarebbe stato il risultato immediato, quello che mi auguro è che questo lavoro serva a costruire una cultura e una consapevolezza nelle minoranze attive di un paese che sono sempre quelle in grado di erigere nel tempo e nello spazio delle dighe alle derive più pericolose e incontrollabili di xenofobia o di chiusura. Penso che certamente un contributo concreto in questo senso lo abbiamo dato».

   Il 12 novembre quando l’alta marea a 187 cm ha sommerso l’85% della città: cosa hai pensato?
«Sono stato a Venezia e ho realizzato un reportage, in cui ho raccontato quello che ho visto. Sto riflettendo e sto lavorando a un progetto che racconterà il dialogo tra i quartieri più popolari e la Venezia turistica, ho provato a leggere quello che è successo anche in questi termini».