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CESURA: Luca Santese e Marco P. Valli

Luca Santese e Marco P. Valli sono la coppia di Cesura che ha esploso l’iconografia del potere politico in Italia

quartiere Centrale

Scritto da Piergiorgio Caserini il 13 febbraio 2022
Aggiornato il 17 febbraio 2022

Foto di Luca Grottoli

Il collettivo di Cesura lo conoscono tutti. Collettivo, laboratorio di stampa, casa editrice autoprodotta. Le peculiarità del collettivo sono almeno due: la prima è di occuparsi strenuamente di ricerca, considerando la fotografia come strumento d’indagine, e quindi con implicazioni esistenziali. La seconda, di riflesso alla prima, è che per circa dieci anni l’intero collettivo viveva giorno e notte a Pianello, un paesino di 2000 anime nelle campagne piacentine. Un’educazione piacentina che ha i toni della Siberia, ma il cui oggetto è diventare fotografi. Capire e essere il mezzo, diciamo. Da qualche anno parte della compagine si è trasferita a Milano, in zona Centrale. Luca Santese e Marco P. Valli sono tra questi: coppia fissa sui progetti di interesse politico come “Realpolitik” o “Il Corpo del Capitano”, ce la raccontano un po’.

«Questa è l’iconografia del potere politico nell’Italia di oggi: autoprodotta dai politici, e per questo capace di disinnescare la forza satirica di un’immagine.»

Come ci raccontate Cesura?

Luca: Cesura nasce nel laboratorio di un fabbro, affittato da Alex Majoli (di Magnum) e Alessandro Sala. Noi, ventenni, siamo andati a fargli da assistenti. Abbiamo imparato il lavoro con loro, tra lo studio di Majoli e il laboratorio di stampa. Due anni dopo nasce Cesura. Succede durante un periodo di crisi delle agenzie e dei giornali, per cui non ci conveniva per niente mettere piede in quelle realtà. Il consiglio di Majoli fu quello di fondare un collettivo che ci rappresentasse come volevamo noi, ed effettivamente nell’arco di un paio d’anni cominciammo ad avere dei primi risultati – anche importanti. Anche oggi Cesura si configura sostanzialmente come un laboratorio di stampa, casa editrice e di formazione con anche un programma educational, e ovviamente collettivo di fotografi – siamo in diciotto – di cui alcuni sono stati “a bottega” in Cesura. E l’aspetto di bottega, di un percorso che si svolge assieme, rimane tutt’ora

 

Marco: Quando sono arrivato io Cesura era già piuttosto attiva, e nell’arco di un anno sono cresciuto come se avessi frequentato tre anni di accademia. Dalla ricerca, alla scelta del soggetto, lo scatto, la stampa, la produzione di un libro o di una fanzine… questo perché vivevamo assieme, non soltanto per gli orari folli del lavoro. Guardavamo dei film, ci confrontavamo sui nostri progetti in continuazione. Uno strano misto tra il militare, una scuola di fotografia e un ambiente di lavoro

Mi incuriosisce molto la scelta di mantenere il campo base a Pianello, lontano dalla città, dagli aperitivi, dal tran-tran milanese. Da dove arriva quest’esigenza?

Marco: C’è questa leggenda che racconta di quando Majoli voleva staccarsi da Milano e da tutte le sue influenze. Prese un compasso puntando 100 km attorno alla città, trovando così Pianello. Per certi aspetti una scelta “strategica”, per essere vicino agli aeroporti – considera che in Cesura c’era una forte base di fotogiornalismo. 

 

Luca: L’aperitivo era una delle questioni di Alex. Ci diceva che si potevano fare giusto due cose: o stare lì e imparare a fare il fotografo o andare a fare gli aperitivi a Milano. C’era insomma l’idea di stare fuori dal giro milanese e delle città in generale che secondo lui – ma poi non è per niente falso – finiva con l’inglobarti in meccanismi per cui la produzione più seria, autentica, viene meno. A Pianello per anni siamo stati in tanti in un posto solo a far fotografia. Una famiglia e una scuola.

Con “Realpolitik” cominciate a lavorare assieme, ed è un progetto distribuito sui tempi lunghi, su anni di ricerca. Come comincia?

Luca: Era la fine del 2017, e anche qui partiamo da Cesura. Non avendo grandi risorse economiche, l’idea era quella di lavorare sul nostro paese. E c’era parecchio da raccontare. All’epoca c’era la Lega nascente con Bossi, Berlusconi forte… io mi occupavo più del Berlusca – con Ruby – mentre Marco iniziava a seguire la Lega. Abbiamo cominciato a pensare a un progetto organico quando Silvio è caduto, e si prospettava l’inizio della Terza Repubblica, con le elezioni e il populismo alle stelle, il M5S e la Lega forte. Tutto questo ci offrì la possibilità di non lavorare a pezzi ma costruire un progetto organico, con una vita sua e che potesse proseguire letteralmente all’infinito, fino a oggi. Cominciammo a seguire le elezioni, con l’idea di vendere le foto ai giornali. Ritratti standard – la solita roba – e a furia di farli non sapevamo perché le avessimo realizzate. Così nasce Boys Boys Boys, la fanzine con i ritratti. Riversando la violenza del lavoro sulle foto.

 

 

Marco: C’è stato un momento preciso in cui è successo: Silvio al Teatro Manzoni. Un intervento di tre ore, un nonno che parlava al pubblico e parlava in Lire, insopportabile. Dopo tre ore siamo tornati a casa, abbiamo guardato le foto, e ci siamo chiesti perché le avessimo fatte. Da lì è cominciato tutto. Il progetto intero si chiama Realpolitik, ma poi sono diversi volumi. Siamo partiti seguendo le elezioni e fotografando tutti i politici in gara con ritratti molto stretti. Abbiamo fatto un volume sulla nascita del governo, Popolopopolo, poi altri due volumi sui sostenitori dei due partiti al potere, quindi Lega e M5S: Lega Nord Party MoVimento Lento. Nel mezzo Salvini è diventata la figura più forte in politica – probabilmente in Europa –, soprattutto dal punto di vista di immagini e comunicazione.

 

Salvini è il soggetto de “Il Corpo del Capitano”. Come nasce l’idea di lavorare su quest’iconografia di dettagli del corpo-immagine del Capitano?

Luca: Il Corpo del Capitano nasce quando Salvini inglobò nella sua comunicazione il ritratto grottesco che andò sul Time Magazine. Nonostante l’avessimo fatta con intenti satirici, era evidentemente in grado di sfruttare quelle immagini a suo favore. Questo sollevò delle questioni importanti, perché la cosa interessante di questo momento storico in politica, è che i politici – ovviamente attraverso i social – diffondono le immagini che loro stessi producono. Così i produttori “tradizionali” di immagini sono sostanzialmente tagliati fuori. E questa è l’iconografia del potere politico nell’Italia di oggi: autoprodotta dai politici, e per questo capace di disinnescare la forza satirica di un’immagine

Ci siamo messi quindi nell’idea di creare un racconto di propaganda con un linguaggio che fosse diametralmente opposto a quello del Capitano, e Il Corpo del Capitano è di segno completamente opposto alla comunicazione di Salvini. È una fotografia violenta, tagliente, in bianco e nero, che fa emergere gli aspetti più grotteschi di quella strategia. Una contro-propaganda dell’iconografia del potere.

 

Marco: Dal momento in cui Salvini era evidentemente in grado di sfruttare quell’impronta satirica dei ritratti, e usarla come pubblicità e riflesso di un “politico di fama internazionale”, volevamo un oggetto che non potesse essere sfruttato in tal senso. Doveva essere un tentativo di risposta a quell’uso che aveva fatto del nostro lavoro. Decidemmo di fare a pezzi – iconograficamente – il corpo di Salvini. Ed è stato così, nessuna immagine è stata virata in propaganda. Calcola poi che lui il libro ce l’ha, gliel’abbiamo dato a mano. Siamo andati a Catania quando fece il primo processo dei caso Gregoretti, e abbiamo anche fatto vedere le prime copie del libro (che ancora non era uscito) ai suoi sostenitori.

 

 

Come l’hanno presa?

Marco: Guarda, tanti non l’hanno nemmeno aperto ed erano entusiasti dell’iniziativa. Diciamo che il libro non parte subito con delle coltellate, anzi. All’inizio potrebbe anche sembrare celebrativo, è ambiguoPoi quelli che sono andati avanti non è che fossero troppo contenti, ecco. Ma il grande colpo è stato intercettare Salvini nel passaggio tra il Tribunale e la conferenza stampa e dargli il libro. Ha ringraziato. 

 

Il vostro lavoro è molto riconoscibile. Vi occupate soltanto di politica, e l’uso che fate degli scatti, forse la logica degli scatti, e propriamente satirica. Una linea dritta e politicizzata che non è da tutti, come si configura un percorso del genere?

Luca: Cesura nasce proprio per avere un’identità riconoscibile e indipendente che possa veicolare il proprio lavoro in modo autonomo. Quando iniziammo a lavorare con Alex capimmo l’idea di Magnum fin dal principio. Se ti metti nell’idea che stai lavorando non su una prospettiva di due anni, ma magari su venti – nel nostro caso nel produrre l’iconografia del potere politico in Italia nell’arco di un decennio – cambia completamente la dimensione del lavoro. Certamente ambizioso ma molto più soddisfacente, e in contrasto con le logiche del momento. Aderire sarebbe semplicemente come perdere identità, stare in un calderone indeterminato. Ma non è nemmeno una strategia, soltanto un modo per stare bene. 

Marco: Se cominciassi a fare le foto come le vogliono i giornali probabilmente non riuscirei più a guardarmi allo specchio. L’esistenza di Cesura stessa è fondata su questi principi di autoproduzione. Siamo abbastanza d’accordo sugli aspetti esistenziali di questo lavoro. A parte il non caricarsi degli aspetti con cui non si ha particolari affinità, quando si vanno a creare degli aspetti identitari – quelli che ci stai riconoscendo tu – lì scatta la possibilità che qualcuno si interessi del lavoro, garantendo così la libertà di produrre come si vuole produrre.

 

Progetti futuri?

Luca: Abbiamo un film documentario in uscita: XIX Pandemic, che abbiamo scritto assieme a Nicola Patruno. È cominciato allo scoppio della pandemia, quando tutta Cesura si stava attivando. Ci siamo accorti subito, dall’esperienza di quelle prime settimane, che c’erano degli elementi che andavano raccontati con un altro mezzo. In quei momenti sembrava che le settimane durassero mesi ma i secondi erano sempre secondi. Poi il silenzio, il cambiamento dei suoni e dei rumori, insomma: queste sono state trasformazioni dello spazio-tempo centrali. Noi abbiamo fatto due/tre mesi in giro tutti i giorni (con l’accredito giornalistico) e abbiamo visto nei dettagli che cos’è una città svuotata. E Milano svuotata era bella. Per quello il video da subito è sembrata la soluzione migliore. Ora siamo nelle fasi conclusive di un’esperienza intensa.

 

Marco: È il nostro primo lavoro di video-documentario. C’è stato questo momento, durante Realpolitik, in cui giravamo con delle piccole camere da ripresa con l’idea di fare uno spaccato di cosa stava succedendo nell’Italia di quel momento. Ci siamo fatti sostanzialmente una lunga palestra con quella tecnica e l’abbiamo riversata qui, come se tutto dovesse essere preparato per questo momento. XIX Pandemic racconta ciò che stava accadendo durante i primi mesi di pandemia, ma anche attraverso storie collaterali che non riportano soltanto i fatti. Un documentario che poi tanto documentario non è, nel senso che ha un’impronta decisamente più evocativa. 

Luca: Una cosa che abbiamo imparato nel tempo, anche con Realpolitik, è che travalicare l’aspetto più rappresentativo, mimetico – che si esercita anche soltanto con l’uso dei vari mezzi –, e quindi fare espressione, fare linguaggio, risulta più efficace in un contesto di rappresentazione forte. Come un contesto fitto di news. Come a dire che è in casa della rappresentazione che si può fare espressione. Per questo la traccia del documentario è costruita su news ma con un linguaggio sporco da macchine amatoriali – piuttosto che il carrello da TG5 – e destrutturato dall’audio finalizzato dai Mouth Fog e dal montaggio. Se vuoi, le matrici del lavoro sono stati Chris Marker con Sans Soleil ma anche il cinema di Carmelo Bene, dal lato del montaggio. Belle reference con cui fare i conti. Per questo il film ha una sua forza, una sua identità precisa.