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Dome: Black Sweat Records

Una chiaccherata con il fondatore dell'etichetta discografica, la reissue mania, il mondo e Milano.

Scritto da Giulio Pecci il 12 febbraio 2023
Aggiornato il 15 febbraio 2023

Scorrere il catalogo della Black Sweat Records vuol dire lasciarsi catturare da una serie di artwork che rubano l’occhio. Tanti quadrati colorati e affascinanti, molto diversi tra loro ma allo stesso tempo stranamente coerenti. Quando iniziamo ad esplorare i suoni che si celano dietro foto, illustrazioni e grafiche, rimane quella sensazione di ossimorica coerenza. Dalle jam blues all’ambient, dal jazz free o spiritual all’elettronica, dal folk indiano fino alla library music italiana. Viaggiamo tra tutti questi suoni eppure in qualche modo la sensazione è che ci sia un filo rosso ad unirli, a farli comunicare.

Parlando con Dome, si capisce che non c’è nessun segreto: ad unire tutto è il suo gusto, eclettico ma anche estremamente definito – da macro interessi e inclinazioni specifiche. E poi ovviamente il collante è la musica: libera, creativa e di qualità, con una tensione costante verso un esotismo sincero e mai parodistico. Attraversiamo continenti ed epoche diverse con naturalezza e ci si getta in riedizioni di perle nascoste e dimenticate. Fondatore della Black Sweat Records, di quella perla di festival che è Zuma e della band ormai culto Al Doum & The Faryds. Al telefono con con lo stesso Dome navighiamo nelle acque delle sue molteplici attività, conoscendo meglio la filosofia e le aspirazioni sue e dell’etichetta.

 

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Quando e come nasce la Black Sweat Records?

Una decina di anni fa. Io sono sempre stato appassionato di musica anni Sessanta e Settanta, ma venivo dal punk e dall’hardcore, insomma dal mondo do it yourself e dell’autoproduzione. Quindi non avevo ben chiare le idee su come si producessero vinili per un’etichetta. Se non che a un certo punto sono entrato in contatto con quella che oggi è la Bongo Joe Records, loro mi hanno aiutato a far uscire il primo disco. Il secondo è stato quello di Al Doum & The Faryds, il gruppo in cui suono, e da lì è partito tutto. In un certo senso mi sono messo a fare le ristampe prima che ci fosse il boom degli ultimi anni. Quindi ho avuto la fortuna di poter fare delle cose che se mi ci mettessi oggi non ne avrei la possibilità. Allo stesso tempo a me non importa che siano ristampe o cose nuove: è che il mio gusto è quello lì, sul sound di quegli anni.

Mi racconti meglio la fase iniziale dell’etichetta, da un punto di vista personale e pratico? Insomma: cosa comporta aprire un’etichetta indipendente?

I primi anni è stata pura passione, ci ho messo dentro soldi che non avevo. Facevo lavoretti e ho smesso di comprare dischi (perché facevo anche il dj) e quei soldi lì li mettevo invece per stamparli. L’ho fatto anche grazie allo studio Legno e Stefano Rossi, Holidays Records, che già aveva un’etichetta e già stampava, mi ha dato una mano molto pratica. E infatti tutt’ora stampo tramite loro. I primi cinque anni bene o male sono stati così, anzi anche in perdita, non ho un contabile preciso di quel periodo. Poi ad un certo punto ho iniziato a guadagnare qualcosina ed è diventata la mia mezza attività. Io poi mi occupo di tutt’altro, sono un insegnante di yoga e faccio massaggi, un’attività che sicuramente mi aiuta a disintossicarmi dalle mail [ndr. ride].

Visto che mi hai detto che l’etichetta nasce modellandosi su quello che è il tuo gusto per musica di un arco temporale specifico, mi viene da chiederti se ti ricordi il primo disco che hai comprato. O quello che ti ha fatto capire quanto sarebbe stata importante la musica e il vinile nella tua vita.

Sono cresciuto nell’epoca dei cd, i vinili sono arrivati perché ascoltavo punk hardcore e lì si stampavano tantissimo i sette pollici. Non saprei indicarti un disco nello specifico, sicuramente ci sono state delle etichette che mi hanno fatto appassionare particolarmente, tra cui all’epoca Mississipi Records, i primi dischi secondo me sono incredibili, e poi Analog Africa. Se avessi potuto avrei fatto proprio robe del genere, poi negli anni ho capito che ci vogliono tantissimi soldi e un apparato dietro grosso. Io occupandomi di musica che va più verso lo sperimentale mi confronto con un mercato più piccolo e “semplice”, da un certo punto di vista. In più mi è sempre piaciuto sentirmi libero di pubblicare quello che voglio, che può risultare in una cosa strana accostando titoli molto diversi tra loro. In realtà sto vedendo sempre di più, anche con le nuove generazioni, che la questione dei generi musicali non esiste veramente più. Cioè se mi capitasse un disco reggae che mi piace lo farei; ora ho fatto un disco di musica classica indiana e ne vorrei fare altra, mi piace tantissimo. Insomma tutto variegato.

Rimanendo sull’ecletticità del tuo gusto che poi applichi al catalogo dell’etichetta. C’è comunque un filo rosso che è quello della musica improvvisata, sperimentale, spesso sul versante jazz.

Sì, diciamo che i dischi di maggior successo sono stati sul filone ambient (io lo chiamo “l’ambient prima della ambient”, con i suoni belli) e psichedelici. E poi il jazz contaminato perché ho avuto la fortuna di fare Don Cherry, Archie Shepp e adesso due nuove uscite di taglio jazz/free sempre molto contaminato.

Mi incuriosisce sapere se e come il tuo background nel punk e nell’hardcore hanno formato il modo in cui ascolti e proponi la musica che stampi. Quali sono gli elementi in comune.

Sicuramente io nella musica ricerco un rapporto emotivo. Per cui quando la musica mi arriva emotivamente per me va bene, questo è il vero filo conduttore tra tutto. Il punk è una musica fortemente emotiva e la musica che propongo con l’etichetta mi suscita quel tipo di emotività lì, a prescindere dai generi. Anche con gli Al Doum, cerchiamo sempre di creare patos, emozioni che possano toccare le persone.

Rimanendo un attimo sugli Al Doum & The Faryds. Quanto è stato importante avere il tuo gruppo, da pubblicare con la tua etichetta in mezzo a tutti gli altri titoli?

Il primo disco degli Al Doum lo abbiamo autoprodotto, mi sono divertito e da lì ho detto “ma perché non proviamo a farne altri”. Quindi in un certo senso è partito tutto da lì, è stato tutto insieme. Ero andato a Berlino un anno, sono tornato a Milano ho iniziato con i dj set, il gruppo e l’etichetta. Non avendo idea di dove si stava andando a parare [ndr. ride] ma una cosa ha aiutato l’altra.

Escludendo proprio gli Al Doum qual è stata l’uscita che ti ha più sorpreso, emozionato, lasciato qualcosa di importante?

Sicuramente quella che è stato il punto di svolta per l’etichetta è stato il disco di Don Cherry, “Om Shanti Om”.

Mi racconti la storia che c’è dietro?

Sostanzialmente la musica è un video che si trovava su YouTube: Don Cherry dal vivo negli studi della Rai. Non avevo idea di come si potesse fare una cosa del genere, quindi ho iniziato ad andare direttamente in Rai alle teche, capire dove si trovava nell’archivio, confrontandomi con i tempi statali e la burocrazia. Una roba da pazzi, nessuno che sa niente o che ti aiuta. Quindi mi sono messo a cercare la licenza per il master fin quando ho trovato un tipo che si è impietosito e mi ha dato una mano: per trovarla ci abbiamo messo due o tre anni. Allo stesso tempo sono andato a contattare gli eredi di Don Cherry che sono in realtà star incredibili di anni Novanta e presente – Eagle-Eye Cherry e Neneh Cerry. Insomma non proprio gente che se la cerchi la trovi in poco tempo. Dopo tutto un giro di persone riesco a parlare con loro e farmi dare un via libera. È stato lunghissimo ed estenuante, in totale più di tre anni. Paradossalmente quando avevo finalmente tutto pronto le cose con l’etichetta stavano andando male, era subito prima del covid, al punto che avevo rallentato tantissimo e stavo concentrandomi sul mio lavoro di insegnante di yoga. Solo che poi appunto, scoppia il covid, e chiaramente lo yoga non esiste più! A quel punto ho fatto uscire Don Cherry che è andato molto bene e da lì tutto è ripartito.

Insomma una storia di perseveranza e difficoltà che si è risolta molto bene. C’è invece un caso in cui le cose non sono andate come speravi e ti è rimasto un po’ di amaro in bocca?

Sì, anche se poi alla fine anche questa è una bella storia, ambientata a Roma. Volevo ristampare “Continente Nero” di Piero Umiliani, uno dei miei dischi preferiti di sempre. Ti parlo di anni e anni fa, quando ancora non era scoppiata la mania e non era stato ristampato praticamente nulla. Quindi riesco a trovare il contatto della famiglia (di una gentilezza e disponibilità fuori dal comune), che mi dice che i diritti del disco sono stati concessi a un’etichetta di Malta per una compilation. Insomma non potevano concedermeli, ma mi dicono che hanno cento copie in vinile dell’originale. Che valevano già all’epoca sui duecento euro ciascuno, infatti ho quasi pensato a una truffa. Invece tutto vero, ho rilevato questo stock delle copie dell’archivio Umiliani facendo questi cinque cofanetti in tela serigrafati vendendoli ad un prezzo molto più basso del mercato. Cioè in un box c’erano dischi per il valore di cinquecento euro e io li vendevo a duecento. Chiaramente li ho venduti tutti subito, entrando anche un poco in contatto con il mondo del collezionismo, gente fuori di testa. Quando poi finalmente la licenza era nuovamente acquistabile per ristampare, sono tornato da loro ma era già partita la mania che c’è ancora oggi per le ristampe di Umiliani e la famiglia lo aveva rivenduto in mezzo ad altri titoli. Quindi alla fine non sono mai riuscito a stamparlo, mi sarebbe piaciuto veramente tanto. Rimane l’amaro perché sono stato veramente il primo ad andare da loro e poi tra una cosa e l’altra comunque non ce l’ho fatta. Però insomma c’è anche una sorta di lieto fine: io ho fatto “Problemi d’Oggi” di Umilliani che è un altro disco bellissimo e loro mi hanno tratto sempre super bene.

Siamo arrivati a sfiorare un argomento interessante: la vera e propria mania degli ultimi anni di ristampare compulsivamente qualunque cosa. Tu come te la vivi? Anche alla luce dei problemi dell’ultimo anno nella produzione di vinili.

Il discorso sulle ristampe è sicuramente andato oltre, si è esagerato. Prendendo l’esempio di Umiliani, con tutto il bene che gli voglio, ma certi dischi si potevano proprio evitare. Per me, sembra banale, ma c’è la musica: un disco è musica. Poi che sia stato stampato cinquant’anni fa piuttosto che oggi mi interessa poco. Anzi, sono più contento se è qualcosa di contemporaneo perché è qualcosa di vivo e che si può supportare. Ma ripeto, per me conta la musica. Per quanto riguarda la disponibilità di stampa e le difficoltà degli ultimi tempi con i materiali, qui si apre un capitolo gigante. Io più volte negli ultimi anni ho pensato di chiudere tutto proprio per questo. Non ha senso. Non ha senso in generale il mondo in cui viviamo, è quel discorso lì: la benzina, l’inquinamento, lo stampare sulla plastica, usare la carta, vivere nelle città in cui siamo tutti impazziti. Allo stesso tempo io cerco di non sobbarcarmi di troppi problemi mondiali. La mia tiratura varia fra le trecento e le cinquecento copie, la mancanza di disponibilità di materiale è dovuta alle major che fanno tirature senza senso per dischi senza senso. Bisogna capire chi crea questi problemi. Dal punto di vista politico insomma è un discorso che si conosce bene: non ha senso addossare la responsabilità al singolo cittadino quando arriva una multinazionale che se cambia una virgola cambia tutto – parliamo di pesi completamente diversi. Io continuerò a fare quello che riesco cercando di concentrarmi sulla qualità, evitando sempre di fare un disco tanto per farlo. Se lo sto pubblicando è perché per me ha un valore che quella cosa sia pubblicata. Comunque viviamo in un mondo estremamente complicato, in cui dobbiamo prenderci le nostre responsabilità ma anche soppesarle. Sicuramente nel pensarla così mi aiuta il fatto che io non ho una dipendenza da questo mondo, ho un altro lavoro e se volessi potrei smettere domani.

Visto che abbiamo parlato anche di città e di come le viviamo ti chiedo che rapporto c’è tra la Black Sweat e Milano.

Io ho sempre dato una mano per organizzare concerti e a un certo punto mi sono messo ad organizzare Zuma. Quella è stata una delle mie sfide più grandi ed è una roba che in città ma anche fuori è stata molto recepita. Super impegnativa ma ancora oggi gente abituata ad andare in giro per festival mi ferma per dirmi che Zuma è stato quello in cui sono stati meglio, che non avevano mai visto nulla del genere a Milano, soprattutto nel modo di fare. Poi in realtà non ci siamo inventati niente, è stato un mix tra l’approccio punk diy e quello yoga un po’ fricchettone. Cioè molto semplicemente facciamo cose belle insieme per stare bene insieme. Non è che bisogna essere un genio per arrivare a pensare ad una cosa del genere [ndr. ride]. Quindi sì il rapporto con la città penso sia esemplificativo nell’esperienza di Zuma. Poi appunto, si continua a collaborare con realtà di qui: Legno, Volume, Iam, il Biko, Chullu, Addict Ameba, Kabobo. Rapporti di amicizia che poi ti portano a collaborare insieme.

Guarda ora che mi citi gli Addict Ameba…

Sì perché mi sa che è anche uscito un articolo da qualche parte. Come al solito quando riesci a mettere insieme un po’ di gente, un vortice di persone che si stimolano a vicenda si inizia a parlare di scena.

Esatto, l’ultima cosa che volevo chiederti era proprio questa. Se non vogliamo parlare di scena, che è una parola a volte abusata, sicuramente possiamo parlare di “rete” milanese, di persone unite da un gusto musicale e da intenti comuni. Anche oltre la musica in un certo senso.

Sì diciamo che Zuma è stato un po’ l’inizio. Poi c’è stato il covid che ha tagliato le gambe e ci sarà un po’ da capire, anche per le energie.

Lo dico pensando anche a un disco che fa parte del catalogo della Black Sweat, “1972 Blues Jazz Session” del Gruppo Afro Mediterraneo. Oggi come allora a Milano sembra uscire ciclicamente questo dna che mette insieme ispirazioni diasporiche, dal Mediterraneo all’Africa, con musiche più eurocentriche. Proprio come fate voi con gli Aldoum, come fanno gli Addict Ameba, ma insomma è quello che esprime un po’ tutto il catalogo dell’etichetta.

Sì assolutamente, alla fine non ci si inventa mai nulla. Quello che ancora non ti ho detto è che per me la cosa più bella di questo lavoro infatti rimane l’incontro con i musicisti. In questi anni ho incontrato Riccardo Sinigaglia, Walter Maioli, Roberto Laneri, Marco Rossi e tanti altri. Tanti musicisti degli anni Settanta con i quali alla fine ci si è riconosciuti a vicenda: parlando dicevamo quasi le stesse cose, esprimevamo gli stessi concetti. Loro hanno fatto e vissuto certe cose cinquant’anni fa e tu le fai oggi. La cosa bella è che rimane gente super stimolante e aperta di mente. Tutto ciò comunque non lo legherei esclusivamente a Milano, anche se per il numero di persone e quanto sono attive sicuramente poi è una città che ti aiuta. Insomma a me quello che fomenta e piace è collaborare con gli amici e fare cose belle insieme. E poi alla fine ci si spartisce cinquanta euro [ndr. ride].