Emma Canepari ha un tono e un timbro accogliente e aperto, ma non la manda a dire nessuno. Il suo professionismo puro e la sua metodologica milanesità l’hanno resa un’icona di quartiere (e non solo), coronandola regina indiscussa dello sviluppo della fotografia analogica, del suo rinascimento una decina d’anni fa, mantenendo con ostinatezza macchinari mitici che fanno brillare gli occhi delle flotte di studenti.
«La cultura della fotografia gioca un ruolo essenziale: un tempo la gente sapeva come funzionavano i rullini, quanto tempo ci voleva. Si sapeva aspettare. Ora ripartiamo da zero.»
Ciao Emma, per i pochi che ancora non ti conoscono: per cosa ti conoscono tutti gli altri?
La nostra attività, Speed Photo si occupa di sviluppo, stampa e scansione digitale di rullini analogici. Questo negozio negli ultimi anni ha avuto una grande trasformazione: da mini lab classico, come ce ne erano decine d’altri a Milano e che si occupano di sviluppi di negativi e stampe e stampa da digitale, abbiamo vissuto un vero e proprio Rinascimento dell’analogico. E tutto questo grazie al Poli che è qui vicino e ai suoi studenti. Negli ultimi cinque o sei anni siamo passati dal dover quasi chiudere bottega a causa dello scarso lavoro a diventare un vero e proprio laboratorio, esclusivamente analogico, come quelli che c’erano una volta. L’incremento del lavoro è stato esponenziale, fino a dover assumere Alessandra per supportarmi perché io e il mio vecchio collaboratore non ce la facevamo più.
Ora ci occupiamo quasi esclusivamente di sviluppo e scansione digitale e stampe da negativo.
Quando hai aperto questo negozio?
Ho rilevato il negozio nel ’98 ma esisteva già dal ’89. E si occupa già allora di sviluppo e stampa, allora c’era solo l’analogico.
Mio marito era (ora e in pensione, collabora con me) un fotografo, quindi c’era già tutto in famiglia.
Io dico sempre che ho avuto due vite lavorative: per ben venticinque anni mi sono occupata della contabilità in una azienda di tessuti per la moda finché la compagnia non si è trasferita fuori città, ma io non ne volevo sapere di andarmene da Milano. Grazie a mio marito e ad alcuni amici, abbiamo allora rilevato questo negozio.
Al tempo di questo mondo non sapevo nulla: ho imparato tutto qui, lavorando. La mia seconda vita: volevo essere a contatto con la gente. All’inizio è stata dura a livello economico, tra le spese per rilevare l’immobile e quelle dei macchinari, che ho dovuto far sostituire tutti. Ma ne è valsa davvero la pena.
Di quali macchinari disponete al momento?
Al momento – purtroppo e per fortuna – abbiamo ancora gli stessi macchinari. La sviluppatrice film (che sviluppa i negativi) è qui dal ’98, ovvero da quando la acquistai nuova di pacca, invece il macchinario per stampa e scansione l’ho acquistato circa quindici anni fa. Sono macchine vecchie e che nessuna fabbrica al mondo più costruisce, perché nessuno investe più, a livello industriale, nell’analogico. Purtroppo, esiste solo una azienda al momento che ancora dispone dei pezzi di ricambio, ed un solo, bravissimo, tecnico in grado di fornirci assistenza. Se qualcosa di grosso si spacca? Non so come finiremo. Il grande problema è la sviluppatrice film: non esiste più nessun pezzo di ricambio, per stare più tranquilla, infatti, ne ho presa una che ciclicamente mi “fornisce” le parti di cui ho bisogno. La fortuna è che sono macchine tedesche molto durature, fatte bene e che teniamo con grande cura.
Tu che l’hai vissuto in prima persona, come si è evoluto il passaggio dall’analogico al digitale – e questo inaspettato ritorno in scena del rullino?
Con l’avvento del digitale il lavoro è quasi scomparso: sparisce la pellicola e improvvisamente tutti iniziano a conservare le foto sui propri device, nessuno stampa più. Il lavoro era diminuito in maniera vistosa, a livelli non indifferenti. L’attività è sempre stata in attivo, tuttavia, grazie a questa posizione strategica, grazie alla Bovisa. Perché la gente del quartiere ci conosceva e tanti anziani ancora usufruivano dei nostri servizi. E soprattutto grazie al Politecnico, che ha sempre offerto corsi di fotografia analogica: gli studenti non hanno mai smesso di entrare da quella porta. Ed è per questo che io non ho mai abbandonato la sviluppatrice film, cosa che altrimenti avrei fatto all’epoca. Alla fine, è stata la nostra fortuna: ora siamo quasi gli unici a lavorare così. La Bovisa ci ha salvato.
Bovisa insomma è parte della vostra identità come attività e viceversa: uno sguardo su queste strade?
Il quartiere ha avuto un ruolo determinante, come ti dicevo. Bovisa è un quartiere multietnico sotto tutti gli aspetti. Ci sono ancora tutti gli anziani della vecchia Milano e gli operai di un tempo, di quando era uno dei poli industriali più grande d’Europa. Oltre a loro, ci sono tantissimi studenti e persone provenienti da Paesi stranieri, tutte perfettamente integrate. Questo melting pot di vecchi milanesi, studenti del Poli ed extracomunitari ha dato forma a un quartiere variegato, funzionale, accogliente, facendone la fortuna.
Inoltre, la Bovisa non è stata uccisa dai centri commerciali a differenza di altre zone di Milano: essendo staccata dal resto della città dalla ferrovia, ha sempre vissuto sui negozi e sugli artigiani, sulle imprese piccole, una realtà unica, non so se ne esistano altri così. Ed è un quartiere vivo, vivace, pieno di artigiani che ce l’hanno fatta: le botteghe sono ancora un punto di riferimento.
Il vostro cliente medio, oltre allo studente, qual è? Come si è evoluto nel tempo?
Durante questi anni ci siamo fatti un nome e tanti arrivano da tutte le parti di Milano e anche da fuori, soprattutto per la nostra serietà e anche grazie alla politica di tenere i prezzi abbastanza bassi. Oltre ai servizi che ti ho elencato, abbiamo anche una camera oscura non per sviluppo bianco e nero ma per i rullini che vanno aperti in camera oscura. Io stessa, agli inizi, ho davvero dovuto imparare tutto di questo mondo: nonostante avessi un marito fotografo non sapevo nemmeno cambiare il rullino, ma io sono così. Quando c’è un cambiamento mi ci butto a capofitto.
Questo anche grazie al mio caro vecchio collaboratore, Mauro, che mi ha insegnato tanto. I tempi erano diversi tuttavia: era tutto molto più dilatato, lento. Ora anche il lavoro è serrato, frenetico. E la cultura della fotografia gioca un ruolo essenziale: un tempo la gente sapeva come funzionavano i rullini, quanto tempo ci voleva e che le foto le potevi avere solo dopo un tot, e aspettava. Ora che tutto è immediato e digitale, è strano per le persone dover aspettare.
Mi sono sempre chiesta come mai ci sia stato questo ritorno all’oggetto, alla fisicità, all’analogico, che nel tuo caso specifico, è stato di vitale importanza. Tu come te lo spieghi?
Non saprei, rimane un grande mistero anche per me. Me lo sono sempre chiesta, come mai questo ritorno? Io penso si tratti di una ritrovata voglia di concretezza da parte dei giovani.
C’è un bellissimo articolo dei ragazzi del politecnico, che si ritrovano tra i vari corsi e praticano la fotografia analogica. Si chiamano Analog Polimi e questo è un passo a cui sono affezionata che vorrei leggerti: “Scattare in analogico è rallentare il tempo, è collocarsi in uno spazio privo di frenesia per imparare l’amarezza dell’attesa, il piacere di sorprenderci ancora. Scattare analogico è la soddisfazione di avere tra le mani una prova tangibile del tempo speso a rincorrere una visione che ci spinge a non abbandonare, anzi a promuovere la fotografia analogica”.
Questo ritorno è stato positivo perché ti rendi conto che tutto cambia, anche improvvisamente, e tu devi adeguarti a questo cambiamento, altrimenti sei finito. E io volevo rimanere qui, volevo tenermi il mio lavoro e continuare a lavorare con questi ragazzi giovani che frequentavano il mio negozio.
C’è qualche aneddoto che ricordi con affetto?
Più che un aneddoto, un ragazzo: lui ai tempi mi ha fatto davvero capire che in quel momento le cose stavano cambiando, stavano tornando i rullini. Al tempo ci barcamenavamo con quei 30 rullini a settimana, pensando fossimo all’inizio della fine. Io ero convinta che l’analogico fosse morto. Un giorno arrivò questo ragazzo polacco, Piotr, iscritto ad architettura. Mi portava un rullo praticamente tutti i giorni. All’inizio ci capivamo anche poco perché parlava italiano a malapena. Essendo un ragazzo bravo e aperto, ha iniziato a conoscere molte persone in città e a portare qui tanti ragazzi e la cultura dell’analogico: ora è un fotografo famoso e questa storia la porterò sempre con me.