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Fango

Stage diving tra i suoni e i racconti del producer veneziano Nicola Zanetti, alla vigilia del lancio della sua nuova etichetta Fangodischi.

Scritto da Fulvio J. Solinas il 12 novembre 2019

Data di nascita

22 settembre 1984 (39 anni)

Attività

Dj

Immaginate un vinile coperto di terra pesante, sommerso dal diluvio universale, forgiato dagli scontri tettonici delle placche rocciose, piegato dalla lava e poi attraversato dalle glaciazioni, immaginatelo riemergere infine come un ologramma, bersagliato da raggi laser e cablato all’inverosimile, un totem 3d della quinta rivoluzione industriale, dove si fondono processi chimici e riti ancestrali. Quello che otterrete è Fango: primitivo, selvaggio e futurista al tempo stesso. Il suono di un rave al Mambanegra di San Paolo (dove ha suonato), di un party a Ibiza (dove ha suonato più di una volta, chiamato da Maceo e al Solomun +1), di una rivoluzione culturale a Tbilisi (dove ha suonato, al 4GB), in un “bunker” a Tel Aviv (dove ha suonato, al Block), di una festa posh a Città del Messico (dove ha suonato e dove suonerà, il primo marzo 2020 all’Edc), nella notte techno di Berlino (dove ha suonato, al Panorama Bar). Potremmo continuare. Fango è il nome di un artista, di un progetto, ora di un’etichetta, Fango sta per invaderci.

   Perchè Fango?
«È il soprannome che mi hanno dato all’università. Studiavo scienze ambientali, un indirizzo prevalentemente legato allo studio della chimica. Le cose peggiori da analizzare erano i fanghi chimici di Marghera, maleodoranti e sporchi, alcuni miei compagni hanno deciso di chiamarmi Fango per la mia attitudine punk».

   Quando Fango?
«Il primo disco è del 2013, si intitola n1. Esce per Degustibus. All’inizio mi sono dedicato alla produzione. Doveva essere la mia ultima esperienza prima di dire addio alla musica e al lavoro in quest’ambito, una specie di scommessa. Pensavo fosse troppo estremo, troppo diverso da quello che si suonava in quel periodo. Piaceva soprattutto a me, ma non aveva legami con gli usi e il costume di quel periodo. Cristiano Spiller, in veste Batongo Ditongo, sentendo il pezzo rimase colpito e decise di produrlo e di pubblicarlo. Fu stampato in vinile e distribuito da Kompakt in tutto il mondo. È stata la mia scommessa finale sulla musica ed è andata bene, il brano è stato suonato da molti dj del circuito internazionale: Timo Maas, James Murphy, Booka Shade, Two Many Djs e altri. Diciamo che Fango inizia da lì, così è partito, per il futuro non vedo scadenze».

   Se non fosse decollato questo progetto cosa avresti fatto?
«Ho iniziato a fare il dj a 14 anni e da allora in questo settore ho fatto tante cose, feste, produzione musicale, ho imparato a suonare la batteria. Poi alla soglia dei 30 anni le responsabilità della vita gravavano, dovevo organizzarmi. Proprio in quel periodo lavoravo all’università e mi occupavo di analisi chimiche. Probabilmente avrei cercato di continuare la carriera legata al mio ambito di studi».

   Dove Fango?
«Vivo a Mirano, un paese in provincia di Venezia, abito in mezzo ai campi, in periferia. Vedo la nebbia quando mi sveglio».

   E quando sei in consolle?
«Quando sono in consolle invece vedo le lucette e la gente che si diverte. Però devo fare due distinzioni: in un piccolo club senti davvero la vicinanza della gente, le sue vibrazioni, il loro sudore e in quel caso mi sento davvero parte della pista, in club più grandi e nei festival, ho un’interpretazione diversa di quello che faccio. La gente è talmente piccola che non è facile capire bene la loro reazione».

   La tua linea per molti anni è stata quella di mantenere l’anonimato: ci puoi dire chi è Nicola Zanetti?
«Un padre di famiglia».

   Perché hai scelto di non rivelare per molto tempo l’identità di Fango?
«Perchè fondamentalmente non c’è niente da raccontare, sono un semplice ragazzo di periferia. Ho voluto concentrare l’attenzione sulla musica e sulle cose forti».

   Come definiresti la tua musica?
«In una parola: scomoda. Voglio che i brani funzionino e che si facciano ballare, ma c’è sempre sotto un po’ anche la voglia di rompere i coglioni».

   Come la produci?
«Ci metto tantissimo è un processo molto lungo e stratificato, non faccio i pezzi in una notte, sono abbastanza perfezionista».

   Il tuo ultimo full lenght, Gea, si scosta dalla techno più ortodossa per abbracciare sonorità a cadenze ostinate in stile kraut-rock, cosmic disco. È un lavoro molto ambizioso: come risponde il pubblico in pista da ballo?
«Lo suono ogni tanto per scaldare l’atmosfera, a inizio set. John talabot ha suonato Crono in alcuni dj set, ma non è esattamente la roba da desfo. Gea per me è un disco da ascoltare in tante situazioni, lo considero un album strumentale da salotto, da macchina, ha un filo logico. Anche se non si ascoltano più i cd è concepito per lasciare il cd dentro e farlo andare, a ripetizione».

   Qual è il filo logico di questo concept album?
«I pezzi riprendono la mitologica greca, mi sono ispirato ai concetti e alle teorie della genesi universale, la cosmogonia. I brani sono dedicati al dio del tempo, del mare, al tema dell’umanità, della vita. C’è poi l’elemento della dualità tra dimensione clubbing e ascolto, volevo risolvere questa sorta di dicotomia. Ciò che ascolti in un club, a casa non funziona. All’inizio volevo riempire contemporaneamente i due spazi, cercavo di realizzare qualcosa che soddisfasse le esigenze di entrambi i contesti, poi ho detto “no” e il disco ha preso una piega molto più d’ascolto. La parte della notte la sviluppo negli ep e nella serie Urano, che sempre nella mitologia greca è dio del cielo, consorte di Gea (Madre terra). In queste produzioni i titoli dei brani sono gli stessi dei meteoriti che dal cielo sono scese sulla terra, ed è così che immagino i miei brani: come dei meteoriti che piombano sulla dancefloor».

   Ripercorriamo un attimo la tua discografia precedente. Una parola per ogni ep/album.
«N1: la fine e l’inizio. Caballos: il trotto. Wek: notte. Tei: stress da catena di montaggio. Tuono: tempesta. Serie viscera: brandelli di organi».

   Raccontaci della tua passione per il vinile.
«Il vinile è un oggetto che fisicamente, implicitamente, nobilita la musica. Con la sua grafica, la presenza, il processo di produzione e anche di acquisizione, a livello personale, grazie a questi passaggi è come se il suono acquisisse una dimensione fisica e reale nel mondo. Il digitale invece relega la musica dentro uno schermo. Comunque non mi considero un feticista del vinile. Nemmeno un integralista. Tra l’altro nella maggior parte dei club è praticamente impossibile usarlo. Gli unici contesti dove ho suonato i vinili sono quelli di Berlino, tipo il Renate, e pochi altri. Molti altri club non sono “attrezzati”. Quasi tutti i dj suonano con le chiavette perché manca una consolle in grado anche semplicemente di funzionare in modo decente con i vinili. Ormai lo standard è diventato quello. C’è un lavoro importante da fare se si vuole far un set in vinile con un maxi impianto. Quando tutti suonavano con il vinile le consolle erano tarate oggi non è più così. Poi c’è la questione del suono, è più caldo, lavora meno sugli alti è morbido e avvolgente . Ma questo è un tema molto ampio, bisognerebbe fare un’intervista solo su questo…».

   Parliamo del presente a novembre debutta la tua nuova etichetta: come ci siamo arrivati?
«Ho prodotto tutto finora per Degustibus e continuerò a farlo. Alcuni pezzi più estremi e sperimentali e personali li voglio produrre per Fangodischi e non precludo la possibilità di dare spazio ad altri progetti. È un’etichetta per disco borderline, suonabile ma borderline».

   Il 16 novembre lancerai questo nuovo progetto ad Argo16 con una live band. E questo introduce il tema della questione performativa nella musica elettronica: perché hai scelto di trasformare il set di Fango in un vero e proprio concerto?
«Perchè sono stanco di vedere sul palco gente che guarda le mail. Mi riferisco alla classica esibizione dal vivo di un produttore fatta con i computer, tipo Ableton live o simile. Non è tanto distante dalla scena classica di un impiegato che controlla le mail, nel suo ufficio. Il mio obiettivo è anche un po’ riportare in auge la classica e iniziale dimensione delle disco, riproporre il loro groove organico e avvolgente in chiave più moderna, futurista, diciamo “fanghista” : io suono la batteria e ho amici che suonano molto bene. Suoniamo dal vivo sulle mie tracce senza variazioni».

   Come è possibile riprodurre l’impatto di brano elettronico?
«Saremo delle human drum machine! La batteria ad esempio è triggerata e c’è un importante lavoro per equilibrare il suo suono naturale e quelli elettronici. Suonerò una vecchia Ludwig del ’78 dalle dimensioni extralarge e dalla sonorità basse e corpose. Proporremo un’ora di live senza soluzione di continuità, un set tutto da ballare cassa a 4/4 a 124 battiti al minuto di spinta costante».

Fango, con il chitarrista Lorenzo Petri.

   Presentaci la Fango Live Band.
«Alla chitarra c’è Lorenzo Petri, liutaio: i suoi acts sono esclusivamente con strumenti modificati artigianalmente per l’occasione da lui stesso. Davide Cairo, sound designer, si occupa della parte elettronica e samples (oltre che dei visuals). A completare la band Michele Zavan, bassista tecnicissimo».

   Fangodischi: obiettivi, direzione, modalità.
«Non è un’etichetta legata ad un preciso genere musicale, non è techno, house, minimal. Nessun genere prefissato della tradizionale scena dance. Questo progetto è finalizzato a cambiare gli stili e le direzioni, perché quello che conta è il senso intrinseco del brano. Fangodischi avrà un indirizzo genericamente dance ma non è detto che anche questo venga rispettato. Sto cercando qualcosa di nuovo che suoni in modo “scomodo” come ho già detto. Un’intenzione, la stessa di Fango. Fare musica che oggi non ha una casa».

Fangodischi, il logo ispirato al mondo delle industrie e della chimica.

   Ti muovi nella scena club lagunare ormai da anni: come la vedi? Cosa buttiamo dalla torre chi salviamo?
«Sono molto amico di Spiller. Lui ha scoperto Fango, ha dato la possibilità che questo progetto esistesse, ha creduto e ha investito soldi ed energia. Anche tanta pazienza, abbiamo litigato costantemente per anni, e continuiamo a volerci bene».

   Cosa ti ha insegnato?
«Tantissimo, quasi tutto».

Fango e Spiller

   Cosa bevi? Cosa mangi? Cocktail preferito.
«Birra artigianale, provo le birre da tutto il mondo. Sono alla ricerca della birra perfetta, ma può variare in ogni momento. Non bevo molti cocktail, direi whiskey sour, in generale preferisco quelli secchi e semplici».

   Cosa ascolti? Cosa consigli di ascoltare?
«Considero l’ascolto come parte integrante del mio lavoro. Controllo tutte le release in vinile dei singoli su juno records, che è il principale portale di musica in vinile, forse il più grande del mondo. Scelgo uscite che vanno dal reggae alla techno, dal rock’n’roll alla dance. Lo faccio per trovare nuovi spunti, per uscire dai canoni delle cose suonate dai classici media, in disco, in radio, quelle che piacciono alla critica. Impiego una bella fetta del mio tempo a fare questo lavoro di ricerca, parecchie ore ogni giorno. Ho scoperto un’infinità di nomi d’artisti che mi piacciono, in ogni filone musicale, che non avrei mai sentito nemmeno nominare, che non vanno a finire sui giornali, nelle classifiche, nei blog e nelle playlist. Voglie essere totalmente indipendente dal sistema. Ovviamente scegliendo questo metodo incontro anche tanta merda ma non è un problema basta skippare. Anzi, incontrare anche prodotti di scarsissima qualità mi fa stare sicuro, perché vuol dire che davvero non c’è selezione a monte, non ci sono filtri. Voglio essere io a decidere cosa mi piace e cosa no, non il titolare di un negozio di vinili».

   Da quali classici un dj deve partire prima di pretendere di far muovere le ginocchia?
«Non penso sia necessario avere riferimenti precisi, anzi, probabilmente per avere roba nuova è importante che uno sia libero e percorra strade nuove, invece di scimmiottare il passato. Ne sento troppi che si appoggiano, io sto cercando qualcos’altro».

   Cosa usi per fare musica?
«Di tutto. Qualsiasi roba. È un elenco lungo. Uso sample fatti da me, pezzi vecchi, campiono tutto quello che mi capita. Uso drum machine, basso e chitarre, synth (quelli più famosi e altri sconosciuti). Monto tutto su logic. Più degli strumenti in sé conta la creatività con cui vengono utilizzati. C’è anche una rincorsa ad utilizzare l’errore, il suono ottenuto da un uso sbagliato degli strumenti, dalle loro forzature, anche gli scarti sono parte della mia musica, cerco però di evitare i cliché della musica glitch».

   Molti si trasferiscono a Berlino: tu hai fatto una scelta diversa. Perchè?
«Perchè la mia vita è qui, ho gli spazi per produrre musica senza perdermi. Qui è stato vantaggioso, sono stato meno influenzato dalle scene e sono rimasto più concentrato».

Un tranquillo lunedì mattina a Berlino, davanti al Berghain

   A Venezia, o in terraferma: i tre posti preferiti per colazione, pranzo e cena.
«Birretteria. Birretteria, Birretteria. A Mirano. Provatela».

   Un’ultima domanda: perché ti spogli?
«Perché la musica è nuda, dialoga alla pari con il pubblico, lo invita a togliersi accessori e maschere, questo per me è il vero potere del clubbing. E poi anche perché sono bello».