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Federico Pepe II

A Le Dictateur la settima puntata di COCO, Stillleben

Scritto da Marco Tagliafierro il 16 ottobre 2019
Aggiornato il 29 ottobre 2019

Luogo di residenza

Milano

Attività

Artista

Penso che Federico Pepe esprima una posizione culturale originale: vede il progetto come un punto di incontro di aree di influenza diversa, dalla tecnologia al design, dal mercato alla filosofia della scienza. Ciò significa intendere il design come un grande problema aperto e non come un insieme di soluzioni garantite.


Parliamo dell’ultimo capitolo in ordine di tempo di COCO. Condividi questa esperienza con Jacopo Benassi che salutiamo, ma l’intervista è dedicata a te e al tuo essere Proteo, multiforme e interdisciplinare. Coco ( COCO n°7, intitolato Stillleben ) questa volta approccia il tema della meta pittura. Partiamo da qui, nell’ambito del tuo caleidoscopio operativo, che significato assume la pittura?

COCO n°7, Stillleben è un lavoro che ha a che fare con il fallimento, con la volontà, con la follia che deriva dal fallimento della volontà. Ha poi di sicuro a che fare con il tempo, con il tempo che interviene come variabile fondamentale in ogni processo produttivo, artistico. La pittura però è quasi un pretesto.

Il tuo fare artistico, la tua attività progettuale, esprime una condizione di costante equilibrio tra naiveté e consapevolezza estetica; osservare con attenzione un tuo progetto vuol dire prendere coscienza della progressiva purificazione che tu operi sulle forme che tu stesso hai precedentemente descritto e che molto probabilmente hanno un’origine rurale.

Io sono nato in un paese di mezza montagna ed effettivamente durante i primi anni della mia formazione visiva i miei riferimenti principali provenivano dalla natura imperante, da un certo tipo di artigianato, e dal mondo iconografico di Armando Testa, agenzia per la quale mio padre ha lavorato per più di 40 anni.

Adesso capisco perché quando analizzo ciò che tu elabori ho sempre la sensazione di trovarmi al cospetto di segni archetipici.

Una delle mie prime passioni è stata confezionare coltellini di legno, passavo le giornate ad intagliare legni che recuperavo nei boschi. Applicavo stili e texture diverse. Ogni tanto li vendevo.

Il design talvolta sembra derivare da una grande necessità di magia. Realizzare un oggetto, in certi casi, significa agire un atto propiziatorio. Ne convieni?

L’oggetto fisico è il risveglio dopo il sogno della parte progettuale. Ci si può risvegliare in ottima forma dopo un incubo ma anche sentirsi davvero poco bene dopo aver fatto un bellissimo sogno. E’ un momento di verità, ti può innalzare o può rappresentare un muro contro il quale schiantarsi.

Il Ventesimo secolo ha operato un azzeramento semiologico, molto probabilmente grazie al contributo della revisione estetica agita dai tolstojani o da esperienze di vita facenti capo a comunità caratterizzate da stili di vita a metà tra capitalismo e comunismo come quella dei pionieri di Monte Verità! Molti tuoi progetti sono caratterizzati da un segno continuo, che non conosce soluzione di continuità e che a me ricorda proprio gli arredi dei pionieri di Monte Verità ad Ascona, studiati da Harald Szeeman; come reagisci a questo spunto di riflessione?

Penso che esistano dei “gate temporali” (lo dico in senso figurato) che portano l’intera umanità, a volte solo alcuni individui, a confrontarsi con pensieri, concetti, immagini, comportamenti ricorrenti. Quasi potessero essere prelevati ed estratti dalla storia. Tutto ciò viene poi eventualmente filtrato dal momento storico, dai suoi immaginari ma il DNA strutturale rimane lo stesso. Utilizzare un segno continuo nell’elaborazione di un progetto, di un dipinto o disegno credo abbia a che fare con la volontà di deviare il meno possibile dall’idea che si sta seguendo, inglobando anche i possibili errori per farli diventare parte del progetto finale.

La quasi totalità dei segni da te elaborati esprime riferimenti alle avanguardie storiche e alla riduzione semantica che hanno apportato. Sei d’accordo?

I segni che elaboro sono frutto della mia storia e del mio tempo e forse del tentativo di “hackerare” la finta libertà che crediamo di aver guadagnato negli ultimi anni in termini di fruitivi esperimenti. In questo senso credo che le avanguardie storiche avrebbero ancora molto da dire.

Resto anche fermo nella convinzione che esista un altro riferimento importante tra te e gli artisti degli inizi del Ventesimo secolo: lo studio e l’analisi dell’Arte Cicladica. Mi sbaglio?

Nella tensione verso una certa sintesi del segno sicuramente, soprattutto applicata al ritratto, ma come accennavo prima, credo sia un tipo di ricerca ricorrente nella storia. Una sorta di esperienza che tende a riaffacciarsi in ogni tempo, perché ogni tempo può trovare i suoi personalissimi segni, le sue trasfigurazioni, le sue maschere. Ogni tempo ha bisogno di sublimare il suo bisogno di icone.

Senza essere mai derivativo, condividi con le Avanguardie il sogno di un’arte totale? È vero?

Per me l’arte totale non è ne un sogno ne un obiettivo, semplicemente lavoro in varie forme e discipline. Non so se è più la curiosità del nuovo o la noia per il vecchio che mi porta a non chiudere mai la ricerca ad un unico ambito. Ho sempre cercato di guadagnarmi la libertà di lavorare in diversi mondi, ovviamente la libertà di poterlo fare non è gratis, non è per nulla scontato che si possa fare. Ci puoi perdere letteralmente il sonno.