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Filippo Capobianco

Il campione del mondo di poetry slam 2023 ha le idee chiare su cosa significa essere artista

Scritto da Mariangela Ranieri il 7 luglio 2023
Aggiornato il 10 luglio 2023

Tania Guarnieri per Trentopoetryslam

Filippo Capobianco porta con sé l’incredibile sintonia che si riassume nel pensiero storico-analitico. In lui si consuma, o forse meglio dire brucia, lo spazio del palco e la facoltà di scienze fisiche. Il viaggio di questo artista nasce da un laboratorio teatrale e carbura sui miracolosi palchi delle poetry slam, nel 2021 ha debuttato a Milano con il suo spettacolo Mia mamma fa il notaio ma anche il risotto, e quest’anno ha vinto il titolo di campione del mondo di poetry slam.

Quello che fai è stare continuamente sul palco, come se fosse un instancabile laboratorio.

 

Raccontaci quando e dove hai iniziato a fidarti dei palchi?

Pavia è un po’ l’inizio della mia storia. Avevo 15 anni quando ho iniziato ad appassionarmi al teatro, con un corso a scuola. A 16 anni ho fatto un provino per entrare in una compagnia teatrale amatoriale: “Tra il dito e la luna”. Lì, come regista e drammaturgo, c’era Gerardo Innarella, da cui ho fatto scuola! E poi ho sperimentato tanto con un corso di improvvisazione teatrale, nella scuola “Improvvisamente” di Chiara Vitti. Insomma, ho sostituito lo sport con i palchi, in retrospettiva ho tanti ricordi di situazioni in cui, per farla breve, ero salito su un palco e mi ero trovato bene.

E proprio tra questi primi incontri che hai iniziato a dar forma al tuo palco? Chi già ti conosce avrà sentito almeno una volta “la nascita di Cecco Palchi”. Pensando a questo testo mi chiedo quando, dal trovarti bene sul palco, hai iniziato a ceccare palchi e basta?

È stato un percorso, un viaggio. L’improvvisazione è stato un bel momento di crescita, perché ha questa cosa meravigliosa di essere un metodo e una filosofia. I suoi principi hanno a che fare con il raccogliere le proposte che arrivano, costruire con quello che hai, saper eliminare l’auto-giudizio quando sei in scena, quando sei sul palco. Non puoi fermarti sui tuoi errori, altrimenti è finita l’improvvisazione, devi continuare ad andare, e così impari ad essere il protagonista o magari la sua spalla. Quello che fai è stare continuamente sul palco, come se fosse un instancabile laboratorio.

E i tuoi testi da quale laboratorio arrivano? Raccontaci le tue altre passioni che convivono con il teatro.

Dopo queste prime esperienze teatrali, ho scelto di studiare fisica a Pavia. Volevo fare teatro, ma dopo uno scontro con i miei, mi sono convinto a unire i miei mondi, le mie passioni. Ecco qui c’è un passaggio interessante: ci si chiede spesso come comunicano la fisica e le poesie, per me infatti scrivere è stato un passaggio ulteriore. Basta dire che ho scoperto la fisica leggendo Rovelli e tanti come lui. Mi ritrovo molto nel pensiero logico-analitico, sono innamorato della matematica. Insomma, carburo con la magistrale in scienze fisiche, con il poetry slam e il teatro in generale!

Infatti, vogliamo sapere tutto dello Slam Poetry! Com’è andata la tua prima primissima volta?

La prima volta che ho sentito qualcosa di slam poetry era un TEDx Talk di Harry Baker, giovane studente di matematica che ha vinto la coppa del mondo nel 2012. In quel video racconta dell’amore impossibile tra 59 e 60. Questa storia mi fa impazzire, scrivo il mio primo testo – Divergenze – sulla storia di un cosmologo e di una terrapiattista. Così ho capito che esisteva una cosa che si chiama poetry slam, ho tolto una pellicola e ho scoperto Narnia. Poi dopo poco c’è stata la prima serata del torneo al Modernista, a due passi da casa mia a Pavia: partecipo. Avevo un tavolone tutto di miei amici, quindi era scontato come sarebbe andata, arrivo secondo! Poi c’è stata la pandemia: lunga pausa e tanto studio. Tra podcast, video e libri ho scoperto a distanza il mondo dello slam italiano. Quindi nel buio della mia cameretta ho ascoltato per la prima volta Giuliano Logos, Luca Bernardini, Lorenzo Maragoni, Chiara Araldi…e così ho ceccato un altro bel palco!

Dove inizia la scrittura nella tua storia?

Lo slam per me era provare un nuovo stimolo per stare sul palco, perché se c’è un palco, c’è un microfono e c’è un pubblico, allora vige la legge del teatro. E la legge del teatro ha l’obiettivo di arrivare alle emozioni di un pubblico da un palco. Questa è la conoscenza che porto nello slam poetry, lo scrivere era funzionale a questo, dovevo scrivere se volevo stare su un palco. Quando scrivo penso sicuramente più al ritmo e alla musicalità delle parole. Palco e musicalità sono i primi due elementi, il terzo è la volontà di raccontare una storia: avendo solo tre minuti ho bisogno di un personaggio, un conflitto, e una conclusione. Scrivere una storia, fare uno spettacolo o un pezzo di slam, significa partire da un punto “a” chiedere al pubblico se gli va di stare nel punto “a”, poi chiedere al pubblico se ti vuole seguire, fare un viaggio e arrivare in un punto “b” o tornare al punto “a”, ma con qualcosa in più.

E i viaggi che fai con lo Slam che atmosfera portano con sé?

È un ambiente sociale che ha un po’ del miracoloso. Le persone dello slam si impegnano per tenere viva una cosa in cui credono, una cosa bella, che non dà da mangiare praticamente a nessuno, ma che tiene legati tutti grazie a una passione comune. Ovvero fare delle serate di poesia in giro per l’Italia, in un genere di nicchia, tra l’altro per anni osteggiato, creandoti un pubblico e dovendo fare un’enorme fatica per spostarti, dormire sui divani, tornare indietro e così via. Per me questo è forte.

Poesia d’altronde è sinonimo di bellezza, in qualsiasi terreno germogli. Ma tutta questa passione come reagisce ai meccanismi della competizione e della votazione?

La risposta a questi meccanismi, per chi si esibisce, penso sia la crescita e tanta umiltà. In pratica porti davanti a delle persone qualunque un pezzo della tua vulnerabilità, e a questo possono dare un voto. La  competizione la rende un gioco, e questo format genera più interesse anche per il pubblico.

Poi, al di là di tutto, parliamo di artisti che forniscono un servizio, nel senso che una società è fatta di diversi ruoli sociali, e l’artista ha il compito di permettere alla comunità di riunirsi e guardare oltre il quotidiano, di immaginare il futuro, di ricordare il passato in maniera sana, di elaborare traumi collettivi, e di aprire il dialogo, perché non propone soluzioni, ma innesca il meccanismo del progresso. Tutto questo succede eccome sui palchi degli slam, anche perché non c’è il grande teatro con due metri di distanza, ma un locale in cui la gente va a prendere una birra. Molto simile a dove è nato per esempio il teatro di Shakespeare, dove il confine tra chi ascolta e chi sta sul palco è sottile, c’è interazione, contaminazione e dialogo!

E adesso qual è la direzione che prende questo tuo percorso?

È nato come un modo diverso di stare sul palco e il palco è quello che cerco, ho un mio spettacolo ed è un punto di partenza. Sto lavorando a un libro, e sarà sicuramente un’opera di traduzione dove la musicalità magari lascerà spazio al gioco di impaginazione. Ci sono state e continuano ad esserci tante soddisfazioni in questo periodo, Parigi è stato forse solo l’inizio, e spero di potervi raccontare presto del prossimo palco.