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Francesco Faccin

Il design dalle vetrine di via Lomazzo

quartiere Chinatown

Scritto da Piergiorgio Caserini il 4 ottobre 2021
Aggiornato il 5 ottobre 2021

Foto di Carolina López Bohórquez

Francesco è uno dei pochi designer che ci sembrano insistere su una categoria ostica: quella di onestà. Sì, perché qui l’onestà non è solo un atteggiamento, un codice, ma è una qualità espressiva del progetto. Vedere gli oggetti per quello che sono non è una questione di sguardi, ma di progettazione. Di trasparenza, come le vetrine del suo studio e l’affaccio sulla strada che lo fanno sembrare un negozio. Per non parlare delle insegne originali del Cinquanta.

A me piacciono gli oggetti onesti. I libri, i muri, gli abiti e le camicie oneste: tutto ciò che comunica trasparentemente com’è stato fatto.

“Honey Factory”, foto di Delfino Sisto Legnani
“Pelleossa”, per Miniforms

Comincio a chiederti da ciò che si vede entrando, anzi dalla strada. Il tuo studio si affaccia su Lomazzo con due vetrine, ma sopra, invece che “Francesco Faccin” c’è scritto “Drogheria” e “Bottiglieria”. Paiono vecchie, in che spazio ci troviamo?

Io sto qui da sei anni assieme a Emanuele Magenta, con cui condivido lo studio. Quando abbiamo trovato questo spazio era ridotto malissimo: era una vecchia agenzia Tecnocasa, perciò con le fasce verdi sui muri, le canaline che giravano intorno come se fossero boiserie, insomma: bruttissimo. Quelle insegne che vedi sono le originali dell’attività degli anni Cinquanta. Erano rimaste coperte dai blocchi retroilluminati, che le hanno conservate benissimo. Quando li abbiamo tolti, abbiamo trovato questo tesoro delle insegne artigianali dipinte a mano. Pensa che una volta un’anziana signora entrò qui dopo averle viste: si ricordava perfettamente com’era la drogheria e la bottiglieria. Mi raccontò della famiglia che ci viveva, proprio dove ho il tavolo adesso, in quello che allora era il retrobottega. Ricordava tutto, le botti da cui spillavano i liquori, il rosolio, le composizioni delle vetrine…

Com’è avere uno studio di progettazione su strada? Siete anche laboratorio?

Questa stanza qui accanto era un laboratorio fino a poco tempo fa. Avevo le macchine che mi regalò De Lucchi, dopo sei anni di lavoro con lui. Avevamo bisogno di una sala riunioni! Lo spazio su strada è comodissimo, ha delle sue particolarità. Si entra ed esce con le bici, il corriere arriva e ti porta dentro le cose, e facile caricare e scaricare pacchi. Oltretutto la vetrina demolisce il rapporto tra interno ed esterno: sei dentro la città, nella via. Ogni tanto è distraente, ma tutti si sentono liberi di passare. Dal giornalista fino all’amico di quartiere che ti porta i cornetti. Di fatto siamo dei negozianti qua, questa è la percezione che diamo. Pensa alla signora che passa di qua puntualmente per farsi riparare l’abatjour, perché vede i macchinari. Cosa che potrebbe essere percepita come una rottura di scatole, per esempio quando sei in call con un AD. Ma in fondo fa parte del gioco. E sono nate anche cose strane. Qui di fianco c’è una sala di registrazione importante, dove vengono tutti. A volte sono entrati e abbiamo imbastito progetti, idee, per sale di registrazioni… personaggi con cui non entrerei mai in contatto se non fosse per la visibilità di questo spazio.

 

Passiamo al tuo lavoro, che conosco da quando in tempi non sospetti studiavo design. Il progetto con cui ti conobbi, fu il kit per fare il fuoco, mi pare 2014. Fascinosissimo.

Quello avvenne in un momento di crisi, che poi fu una svolta. Non capivo dove andare, e ho sentito l’esigenza di fare un progetto terapeutico per me, per certi aspetti fare un fuoco era un ricominciare da capo. Dire a me stesso e anche agli altri che sono un designer che vuole ogni volta ricominciare da capo. Perché il vuoto, l’assenza di contaminazione – che è impossibile – almeno nell’intenzione dovrebbe essere la base per partire. Qua credo si vedano anche le differenze tra quel design pensato per essere bello da fotografare e da pubblicare sui social, ecco io cerco di star lontano da quel mondo lì – che non è nemmeno facile da definire, perché le categorie si mescolano. Mi fa paura. Ho paura di finire in quel calderone.

C’è una fascinazione per il legno, per il lavoro manuale, ma soprattutto per quella formula loosiana del Less is More, dell’ornamento delittuoso. È ancora così? È colpa del legno?

Sì, è un po’ così. Ma non si tratta di una riduzione per la riduzione, più che altro è una questione di onestà. A me piacciono non solo gli oggetti ma anche i libri e i muri che sono onesti, gli abiti e le camicie oneste: tutto ciò che comunica trasparentemente com’è stato fatto, con immediatezza. Lo sforzo è far capire che in tutto il processo, dall’idea al prodotto, si sono tolti quei passaggi che potrebbero sporcare quell’onestà finale. C’è da guadagnare una certa lentezza, tanto nel lavoro quanto sulle fasi di ideazione. Ho finalmente imparato a dire anche ai clienti che ho bisogno di tempo. Se è troppo veloce, dico no. Può sembrare un romanticismo, ma per me questa cosa viene prima del profitto. Ne viene del mio benessere mentale. Se non lo faccio, perdo serenità. Perché a quel punto non è più una ricerca ma un mestiere. Io sono fermamente convinto che il lavoro debba sempre essere una ricerca. Uno non può andare a lavorare solo perché si porta a casa lo stipendio. Ci deve essere la volontà di mettere quell’elemento che fa la differenza rispetto al mestiere.

Come se fosse osmotico, un rapporto di crescita.

Esatto, io sono il mio lavoro. E pensa che anni fa questa cosa mi pesava. Mi sentivo in colpa, perché sembra che sei un workaholic. Ma a me piace essere costantemente immerso in cose che mi piacciono. E questo contribuisce, anche se in piccola misura, a rendere le cose più accettabili. Per certi versi il lavoro è per me l’unica cosa che ci legittima, in fondo, a vivere in società. Altrimenti si prende e si va a vivere in montagna con le capre. Che è sicuramente un piano stupendo, ma è una scelta estrema. Il lavoro va vissuto come un atto politico. Il modo in cui si agisce sulle cose. In cui si esprime amore, disagio, è un modo di partecipare. Ed è per questo che in fondo non esiste un lavoro che sia meno serio di altri. Tutti hanno bisogno di tutto. Il medico di un tavolo, io di un medico. Qui ci sono degli equivoci poi. Nel mio settore, tra stampa ma anche alcuni progettisti, sembra che si faccia uno sforzo smisurato per rendere il lavoro del designer frivolo.

“Pepa”, foto di Sistemamanifesta
“Re-fire”, foto di Delfino Sisto Legnani

Mari fu tuo maestro, giusto?

Me lo chiedono spesso. E io rispondo sempre che per me, Mari è quello che ho conosciuto tra i suoi lavori, nei libri. Perciò quello che possono conoscere tutti. A livello personale, posso dire che aveva lati contraddittori, convivevano tante cose: un bambino, un cerbero, lati oscuri e meraviglia. Ma tutto questo deve essere separato. C’è Mari l’umano e Mari il pensatore-designer. Lavori che vanno oltre la persona, trascendono il carattere. Tra dieci anni tanto la memoria del suo rinomato carattere si diluirà, e rimarrà soltanto il suo lavoro. Come se ci mettessimo a discutere oggi del carattere di Michelangelo, che è passato alla storia come uno dei peggiori. C’è del ridicolo a entrare in queste dimensioni.

Spoiler ultimi progetti?

Te lo dico in anteprima: un nuovo format di negozi di quartiere con NaturaSì. Il primo negozio pilota aprirà in Porta Romana, il format si chiama NUDO. Perché tutti i prodotti sono nudi, sfusi. L’idea è quella di allontanarsi dalla grande distribuzione e avvicinarsi al rapporto diretto con le persone nel quartiere. Quindi c’è una scelta molto ponderata sui luoghi, sugli spot, un locale molto piccolo. Per me è importante perché è il primo progetto integrale. Spazio, testi, divise, logo… Bellissimo. E poi ci siamo trovati nell’etica del lavoro. NaturaSì ha un modo di pensare diverso dal mio, ma convergente: c’è certo tutto il mondo steineriano dietro, che capisco ma non mi ci ritrovo pienamente. Ma la cosa più importante, è che loro hanno la mia stessa ossessione per la trasparenza, per l’onestà. A costo del profitto, nei termini in cui ne stavamo parlando prima.

Com’è invece il tuo rapporto con le gallerie?

Diciamo che da un lato mi attrae l’idea di essere più libero, ma ci si rende conto presto che in fondo è un’illusione. È ancora questa cosa dell’onestà, che ti sembrerà ossessiva. Per quanto si riesca a fare dei buoni oggetti, di qualità, ben fatti e tutto, il rapporto tra costi di produzione e vendita non è mai onesto. Io so quanto costa. Per quanto sballato sia lo stesso rapporto nel mondo dell’industria, è comunque più accettabile. Al di là che i clienti lo sappiano, a risentirne è sempre quell’onestà.

Capisco cosa intendi. È un venir meno a una delle vocazioni primarie del design, che al fondo è produzione di massa, progettazione industriale. Per tutti. E questo è il valore, no?

Guarda, negli anni io ho provato un po’ tutto. Per esempio anche quest’anno ho fatto un lavoro d’allestimento alla GAMEC di Bergamo, ed è stato bellissimo, è stato una sfida. Finisce poi che tutti i progetti che mi fanno paura, per cui non dormo la notte, sono quelli che una volta finiti mi piacciono di più. C’è uno scarto, un apprendimento. C’è quel rapporto con il lavoro di cui parlavamo prima. Penso che sia l’aspetto più interessante del progettare, come dice la parola, del pro-getto, pro-iacere. Lanciarsi in avanti, e allora è adrenalinico. E quando c’è quella sensazione, anche di paura, vuol dire che è un progetto buono. Ogni volta è tirare una linea e ricominciare da capo. Faticoso, ma vitale. 

Sai alle volte mi hanno detto che sono un calvinista del design, ma io sono anche un tropicalista. Insomma, ho un amore totale per tutto ciò che è vernacolare, addirittura folcloristico. quando ero studente ero totalmente nel mondo del design estetizzante e minimalista. Ma portato talmente all’estremo, il minimalismo diventa formalismo, estetismo, come l’ornamento. Diventa perverso, l’estetica del dettaglio. Ecco, Enzo Mari mi aiutò tantissimo a capire questa cosa. Mari è stato definito un minimalista, ma sarebbe inorridito. Più che altro, sarebbe meglio definirlo un essenzialista. Che sarebbe la vicinanza più possibile tra forma e significato, ma anche qua: qual è la forma giusta? Quante forme giuste ci sono? Non lo so, ma almeno bisogna provarci. È una questione di intenzione.

Salutiamoci chiedendoti di Sarpi. Sei un sarpiano da molto tempo, quali sono le tue immagini, i tuoi racconti, del quartiere?

Sì, sono più di dieci anni che ci vivo. All’inizio sembrava un’altra città. Mi sono completamente innamorato di quegli equilibri tra le comunità. Sono anche un po’ grato alla comunità cinese di riuscire a mantenere un livello estetico che per certi versi appare sciatto rispetto a quella milanesità che avanza in continuazione. Le fa barriera. Quest’equilibrio tra il cinese “autentico”, meno attento a un certo modo di apparire, credo abbia contribuito a rendere questo quartiere più autentico degli altri. Non sono finti, per dire, e lo dico pensando a Brera. Dove non c’è più vita di strada.

Qua è interessante perché da sempre è stato un centro dove convivevano molti “creativi”, persone che hanno saputo godere di questa situazione “mista”, al di là delle tensioni anche impegnative che c’erano da prima della pedonalizzazione. E credo che sia questa condizione “mista” il suo segreto. Grazie ai cinesi ma anche grazie ai vari livelli sociali, dai professionisti agli artisti fino allo zoccolo duro degli anziani delle case di ringhiera che vivono qui da 50 anni.

 

Casa in Piazzale Baiamonti, foto di Simone Fiorini